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I synth modulari del nuovo album di James Blake sono un viaggio verso il paradiso

Il sesto disco dell’artista inglese è un ritorno all’elettronica dei primi lavori. Tra modulari, synth e piano, Blake riesce a farci commuovere ballando

Autore Samuele Valori
  • Il11 Settembre 2023
I synth modulari del nuovo album di James Blake sono un viaggio verso il paradiso

Ci sono i dischi che nascono da un’esigenza, interiore o esteriore, e che vanno dritti in una direzione prefissata. Ci sono poi degli altri dischi che accadono per caso e che evolvono e nascono nel momento stesso della loro ideazione. Non sai dove ti condurranno, se all’inferno o in paradiso. Il nuovo album Playing Robots Into Heaven di James Blake è sicuramente più vicino alla seconda categoria.

L’artista inglese è raffigurato in copertina fuori fuoco, in un pellegrinaggio in salita verso un generico paradiso del suono. Il modulare che porta in spalla è l’unico bagaglio e forse il motivo del viaggio. Eppure, l’album inizia con un pianoforte e con la voce filtrata di James Blake. Asking to Break è molto più di un’introduzione: è l’ideale transizione dall’ultimo lavoro solista del 2021 Friends That Break Your Heart.

Il canto e l’emotività rimangono protagonisti nella successiva Loading, estratta come secondo singolo. Il suono da club inizia a sovrastare la tastiera, ma rimane intatta la melodia che guida il ritornello. Come suggerisce il titolo, che si riferisce all’essere pronti per una relazione amorosa, è una traccia che segna l’inizio di un nuovo percorso. Un inizio metaforicamente rappresentato dal suono sintetico ripetitivo che sul finale sembra riprodurre i passi in salita del James Blake pellegrino della copertina.

Playing Robots Into Heaven, da uno scarabocchio può nascere un quadro

James Blake ha scritto ed elaborato il sesto album partendo, nella maggior parte dei casi, da frammenti e scarti. Da qui deriva l’incessante utilizzo del modulatore che l’artista inglese ha adoperato come base per tutte le tracce, spesso portandosene anche uno “tascabile” dietro nel caso di un’ispirazione improvvisa. Cosa avvenuta con Tell Me, canzone abbozzata in bus insieme al fido collaboratore Rob McAndrews e caratterizzata da una presenza massiccia dell’elettronica.

Da qui si entra nel vero mood del disco e la malinconia del testo si scontra con la ballabilità sfacciata della musica dancefloor che esplode nel finale. L’emozione si prende il proprio spazio negli spezzoni melodici in cui il falsetto di James Blake si sposa con il pianoforte.

L’atmosfera da rave party domina Fall Back, brano che rientra nello stile di Burial. Lo sfruttamento del modulatore è invece più sperimentale in Night Sky, canzone il canto di James Blake si fa minimale. Il finale corale è ambiguo e lascia il dubbio se le voci siano reali o generate elettronicamente. La spazialità del suono proietta l’ascoltatore altrove.

James Blake, un nuovo album di ospiti visibili e invisibili

Siamo stati abituati, perlomeno da Assume Form (2019) in poi, a tracklist ricche di collaborazioni. Nel nuovo album di James Blake invece non ci sono feat. In studio il cantante inglese è stato accompagnato tra gli altri da Dom Maker (Slowthai, Rosalía) e dalla compagna Jameela, ma di ospiti non c’è traccia. Perlomeno di ospiti dichiarati, perché di comparse solo apparentemente “invisibili” ce ne sono diverse. La più evidente è quella del duo The Ragga Twins nel primo singolo estratto Big Hammer. Uno dei pezzi più belli dell’album che unisce trap, rap ed elettronica.

Più complicato, ma non impossibile, distinguere Big Boi nei sample melodici di He’s Been Wonderful. Una delle composizioni più stratificate in cui la voce di James non compare, tra club sound e parti corali quasi gospel.

Molto più cupa è I Want You to Know, canzone nata a partire dalle percussioni, dove il canto dell’artista inglese è intervallato da un sample di Pharrell Williams estrapolato da Beautiful di Snoop Dogg. Due esempi che confermano una volta in più come James sia capace di unire le linee e i tratteggi di uno schizzo distratto e creare qualcosa di grandioso.

Playing Robots Into Heaven, un ritorno alle origini senza rinnegare il passato

Con Friends That Break Your Heart James Blake si era messo a nudo. Il disco, nato durante il periodo della pandemia, andando per certi versi controcorrente, era meno ermetico rispetto al passato, sia nei suoni che nelle parole.

Dall’album della condivisione delle sensazioni interiori, si passa a Playing Robots Into Heaven, che è un’opera profondamente fisica. Il corpo sperimenta, si muove, elabora il ritmo e lo trasmette alla mente. James Blake pur tornando all’elettronica e alle proprie radici, con il nuovo album non rinnega quanto raggiunto e conquistato nel mezzo.

James Blake non è più quel ragazzino “che non ha mai imparato ad esternare”, e lo dimostra nel piccolo capolavoro dell’album che è Fire the Editor. I sintetizzatori sorreggono il canto emozionante dell’artista inglese, prima che l’elettronica non ingombrante di un simil xilofono emerga dal nulla.

L’editor, o il montatore, non è nient’altro che la parte interiore di ognuno di noi votata all’autocensura. Tema quello della ricerca spasmodica della realizzazione personale – e di quanto spesso un artista sia costretto a “tagliarsi” per soddisfare gli standard e le aspettative – che James aveva già affrontato con Say What You Will.

Al termine dell’ascolto di Playing Robots Into Heaven s’intravede la cima. I “robot” – o i modulari – sono stati portati in salvo in paradiso. L’ambiente è rarefatto come nella commovente If You Can Hear Me, dedicata a suo padre e scritta originariamente – poi scartata – per il film Ad Astra (2019). La title track finale, da cui tutto è partito, è la strumentale liberatoria definitiva. Le pressioni hanno lasciato il posto alla creatività pura, slegata da qualsiasi logica. Sì, siamo arrivati in paradiso.

Articolo di Samuele Valori

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