Non avrai altro Dio all’infuori di Kendrick Lamar
Il rapper di Compton ha stregato l’Arena di Verona e ha salutato i presenti con una promessa: «Tornerò». E dopo ieri sera, noi non vediamo già l’ora
Lo confesso: fino a dodici ore fa ero atea. Poi, un po’ come Paolo sulla via di Damasco, sono stata folgorata da una presenza partita dalla lontana Compton e atterrata direttamente sul palco dell’Arena di Verona. Era Kendrick Lamar (stavolta senza la corona di spine tempestata di 8mila diamanti realizzata appositamente per lui da Tiffany & Co.), approdato nello storico anfiteatro della città di Romeo e Giulietta per l’unica data italiana – prodotta e distribuita da Vivo Concerti – del suo tour mondiale (e la seconda nel nostro Paese nel giro di un anno solare esatto).
Se la conversione al Dio Kendrick Lamar era già in atto da parecchi anni, ieri sera la mia devozione e quella degli altri 12mila presenti (tra cui Marracash, accolto da un’ovazione straripante, degna di un vero king che occupa il suo meritato trono in tribuna d’onore) ha toccato il culmine, complice anche l’atmosfera decisamente più intima e raccolta di quella dell’anno scorso all’Ippodromo, che ha accorciato i gradi di separazione tra il pubblico e K-Dot e che lo ha indotto persino a rompere il ghiaccio e interagire maggiormente con lui.
Una scenografia minimale, pochi ballerini sul palco, un piccolo gigante al centro della scena senza alcun gioiello di alta caratura in vista e un fiume di rime e flussi di coscienza sputati al microfono praticamente senza sosta. Sono questi gli ingredienti per uno show magistrale, che tutti quelli che fanno della musica il proprio mestiere e la propria passione dovrebbero vedere almeno una volta nella vita, a dimostrazione che i grandi non hanno bisogno di orpelli per riconfermarsi tali.
La forza di Kendrick Lamar
La potenza enorme di Kendrick Lamar, che gli ha fatto guadagnare il premio Pulitzer nel 2018 e lo statement di rapper e liricista più influente del XXI secolo, infatti, non sta nello sfarzo e nell’ostentazione. Non sta nell’egotrip, nell’autocelebrazione da maschio alfa granitico nella percezione impeccabile del proprio essere. Ma nella capacità straordinaria di scavarsi dentro con una profondità fuori dal comune (tanto da mettere in scena, nel videoclip di Count Me Out, una vera e propria seduta di psicoterapia), di porre in discussione sé e ciò che lo circonda, anche a costo di ammettere a se stesso e agli altri l’inammissibile, svelando tutte le frustrazioni e le prese di coscienza di un uomo che non si trincera dietro un’idea di perfezione, ma anzi, la annienta come si fa con il mostro finale del gioco.
Non è un caso, infatti, che Kendrick – in coda a un’ora e venti di successi che rimarranno scolpiti in un ipotetico Monte Rushmore dell’hip hop, dalle più recenti N95 e Rich Spirit alle storiche Backseat Freestyle, Swimming Pools (Drank) e Bitch Don’t Kill My Vibe – che il pubblico canta senza perdersi nemmeno una parola, cosa assolutamente non scontata quando si tratta di rapper americani -, concluda sempre i suoi live con Savior, quello che ha definito il suo pezzo preferito del suo ultimo album.
La promessa finale: «Ricordatevi queste parole: tornerò presto»
Dopo aver ribadito chi è il GOAT (o l’MVP, come i presenti lo acclamano nel corso della serata), Kendrick Lamar saluta tutti con il suo inno all’imperfezione, quello di un uomo che nonostante l’aura di immortalità da cui è circondato e l’essere diventato la cassa di risonanza di un’intera comunità, non vuole nient’altro che essere umano. E vuole ricordarlo e ricordarsene.
Prima di scendere dal palco per volare in California e sottrarsi allo sguardo adorante dei presenti, K-Dot fa una promessa: «Ricordatevi queste parole: tornerò presto». E noi, Kendrick, non vediamo già l’ora per ribadire ancora una volta che non avremo altro Dio all’infuori di te.