La città non ti vuole: viaggio nelle serate cumbia di Milano
Nel nostro The New Italians Issue abbiamo intervistato Daaniconda, Donatella Chiara, Guayaba e Unaextracomunitaria, quattro dj latine che animano le notti milanesi
Unaextracomunitaria
La città non ti vuole: viaggio nelle serate cumbia di Milano è apparso originariamente nel nuovo numero di Billboard Italia, The New Italians Issue, dedicato alle nuove generazioni con background migratorio.
Una volta parlando con mio padre, cercando di dissotterrare il mio passato, mi raccontò di come da piccolo un giorno tornai a casa infastidito e punto dal fatto che qualcuno all’asilo mi diede del filippino. “Sono peruviano!”. Così, a quanto pare dai ricordi del mio vecchio, mi lamentavo tutto offeso. Piano piano, crescendo, ho capito che i conflitti e i disorientamenti della propria identità, come in quel caso, sono una condizione comune tra i migranti. Uno sbattimento in più che ci differenzia dagli altri e allo stesso tempo, appunto, ci accomuna.
C’è una barra di una canzone di El-P, Poisenville kids no win, che dice “To answer the question, yes – the city wants you gone, And thats the only thing connecting us, but the connection is so strong” e rappresenta perfettamente in due frasi il tipo di legame e complicità che sento con i miei coetanei migranti o figli di migranti dell’America Latina. Non ci conosciamo, non so come ti chiami, ma mi basta uno sguardo per capire parte di quello che hai passato, che “la città non ti vuole”. È un’iperbole, ok ma neanche tanto in un periodo in cui il presidente del consiglio in Italia è una fascista e il paese più potente al mondo sta scatenando nei suoi confini la Gestapo.
Dicevo, una parte della città non ti vuole, ti dice “ma come parli bene l’italiano” e pensa che straniero, migrante, clandestino e risorsa della Boldrini siano la stessa cosa. È una parte della città, non tutta ma quando sali su un tram a Milano e vedi scritto a pennarello “stranieri tornate al vostro paese” capisci che quella parte c’è forte e chiaro. Qualche anno fa sempre a Milano il mio sguardo si è incrociato con quello di Alejandro Castillo, un ragazzo peruviano con la stessa classe degli sciamani che ho visto sempre mettere tutto se stesso per la causa dei migranti e figli dei migranti latini attraverso una serie di eventi culturali.
È stato lui tre anni fa a farmi fare la mia prima serata da selector in una festa cumbia illegale che aveva organizzato coinvolgendo dei (veri) DJ da tutto il mondo. A queste feste negli anni hanno partecipato tanti miei amici italiani, divertendosi e non saprei spiegare perché, ma vederli divertirsi lì mi dava un senso di orgoglio, come se quelle feste fossero anche un riscatto personale e collettivo. Così come quando li porto nei ristoranti peruviani, ci volano e ci tornano per fatti loro. In qualche modo avrà a che fare con quella cosa della città che non ti vuole.
Tornando alle feste, fanno parte di un progetto che Alejandro ha chiamato Salvajismo. Salvajismo evoca una connessione con il concetto di “selvaggio”, utilizzato dai colonizzatori europei per descrivere le popolazioni colonizzate (dalla bio Instagram). In queste feste suonano tante DJ donne eccezionali e la cosa mi ha veramente incuriosito. Anche perché se cerchi su Google “best DJs in the world” nei primi 30 risultati c’è solo una donna, Peggy Gou, e nella top 100 DJs 2025 di DJMag sempre nei primi 30 posti oltre alla disc jockey sudcoreana c’è solo un’altra donna, Charlotte de Witte.
Quindi, quando Billboard mi ha proposto di scrivere qualcosa sulle seconde generazioni ho pensato di fare un mix, una mezcla, tra racconto personale e intervista a queste DJ, di cui so veramente poco ma è quel tipo di poco che, come detto prima, è speciale. Loro sono Daaniconda, Donatella Chiara, Guayaba e Una Extracomunitaria.
Quali sono le tue origini e come hanno influenzato la tua identità in Italia?
Daaniconda: Io sono nata e cresciuta in Messico. Sono arrivata in Italia tre anni fa per iniziare i miei studi professionali. Le mie origini hanno sicuramente influenzato lo sviluppo della mia personalità qui in Italia, soprattutto nel modo in cui mi relaziono con le persone. Noi messicani siamo molto aperti e ci piace socializzare; a volte sentivo che il mio modo di avvicinarmi agli altri poteva “spaventare” gli italiani. Per me, cose che sembravano semplici e naturali, per loro risultavano strane o fuori luogo. Ho sempre percepito una linea di differenza tra l’attitudine latina e quella italiana.
Donatella Chiara: Mia madre è messicana e mio padre è italiano. Lui è emigrato quarant’anni fa e torna in Italia quando può. Io sono cresciuta per tutta la mia vita a Oaxaca, in Messico, e l’unica cosa italiana che pulsava nella mia vita era il mio nome e quando mangiavo al ristorante di mio padre. Crescere con tutto questo, col passare degli anni, mi ha causato molti dubbi d’identità e mi faceva chiedere continuamente: cosa mi rende davvero italiana? Se la mia esperienza è sempre stata il Messico e la mia famiglia è messicana, cosa succede con quell’altro lato?
A ventun anni ho deciso di trasferirmi a Milano per studiare arte. Una parte di me voleva connettersi con ciò che chiamano “radici”, ma poi mi sono resa conto che le mie esperienze qui sono state come iniziare da un grande zero. E non mi dispiace, anzi, credo che sia successo esattamente come doveva andare, e mi sento grata di rappresentare il Messico qui, di mostrare le mie vere radici, che sono come l’albero del Tule (l’albero più largo del mondo, che si trova nella mia città natale): grandi, imponenti, diffuse e piene di cultura.
Guayaba: Sono nata a Bogotá, in Colombia, dove è nata anche tutta la mia famiglia. Sono arrivata in Italia a 15 anni, grazie a mia madre che, dopo quattro anni come migrante economica, è riuscita a ottenere il ricongiungimento familiare. Mi ha portata in un piccolo paese sul Lago Trasimeno, in Umbria. Poi mi sono trasferita a Perugia, dove ho studiato Giurisprudenza. Il trasferimento è stato uno shock culturale enorme: da una metropoli vivace come Bogotá a un paesino silenzioso e isolato. Da un lato, ho apprezzato la tranquillità, dall’altro ho sofferto molto per la mancanza di stimoli culturali e per l’impossibilità, nei primi mesi, di comunicare. Questo mi ha portata a chiudermi, a rifugiarmi nella musica e nei libri. Senza internet, quella era la mia finestra sul mondo.
Alle superiori ho cominciato ad aprirmi un po’ di più, ma la sensazione di essere diversa restava forte. Ero l’unica persona dell’America Latina in tutta la scuola. Le mie origini mi hanno sempre accompagnata, ma nei primi anni ero una “spugna”: volevo assorbire tutto della cultura italiana, dalla lingua alla storia, all’arte, alla politica. Solo più avanti, all’università, ho iniziato ad avvicinarmi ai collettivi di sinistra locali, cercando uno spazio da cui partire. A Perugia, la comunità latinoamericana era quasi assente, ma dopo un viaggio in Messico e il trasferimento a Milano — dove nel frattempo si era spostata anche mia madre — le cose sono cambiate.
A Milano ho cominciato a frequentare centri sociali e spazi in cui la diaspora latinoamericana stava costruendo reti e comunità. Lì ho sentito forte il bisogno di fare parte di un movimento collettivo. Di fronte alle disuguaglianze strutturali di una città come questa, creare comunità dal basso è diventata una necessità. Sono stati anni intensi, ma anche pieni di bellezza e trasformazione.
Unaextracomunitaria: Siamo di origine peruviana, nati e cresciuti ad Apurímac, una regione delle Ande caratterizzata da forti contrasti sociali. Mia madre è stata la prima a migrare in Italia, e io l’ho raggiunta nove anni fa. Crescendo in una città segnata dai retaggi del colonialismo europeo, ho vissuto costantemente tra due mondi: il mondo quechua, emarginato e pieno di pregiudizi, e il mondo occidentale. Questa ambivalenza mi ha portata a interrogarmi continuamente sulla mia identità. Tuttavia, il fatto che mia madre abbia avuto come prima lingua il quechua e non lo spagnolo l’ha resa per me un simbolo di resistenza: la resistenza dei popoli che hanno lottato contro lo sterminio e l’oppressione. Queste radici hanno marcato profondamente chi sono.
Arrivata in Italia, ho dovuto decostruire e ricostruire la mia identità. Oggi mi riconosco come donna migrante, andina, quechua, e come agente di cambiamento. Allo stesso tempo, grazie al processo di apprendimento sociolinguistico e all’integrazione nella cultura italiana, una parte di me sente di appartenere anche a questa nuova realtà. La mia identità è quindi un intreccio di resistenza, migrazione e dialogo culturale.
Che esperienza hai vissuto in Italia da figlia di migranti o migrante?
D: Per me arrivare da sola in Italia è stata un’esperienza incredibile. Mi ha fatto capire quanto sono capace: ho imparato una nuova lingua, mi sono adattata a una cultura diversa, sono riuscita a vivere lontana dalla mia famiglia con l’obiettivo di costruire una vita nuova. Finora non ho vissuto momenti di forte conflitto, però devo dire che ti rendi conto che sarai sempre considerata “straniera”. La discriminazione può manifestarsi anche in modi sottili, a cui magari non fai caso subito, ma che, ripensandoci, ti rendi conto non sarebbero successi a un’italiana. È una differenza sottile, ma reale.
DC: Per me l’interculturalità è sempre stata fondamentale per conoscerci come esseri umani. Arrivare qui è stato uno shock molto caotico: pensavo che tutti lo avrebbero visto allo stesso modo, e anche se ormai è diventata la mia quotidianità e l’ho trovata a Milano, noto che per molte persone italiane non è così, ed è triste vederlo e viverlo. Non direttamente su di me, ma il razzismo è latente. Come persona latinx, credo che la gente mi guardi con curiosità — a molti può piacere — ma si arriva anche al limite dell’esotizzazione, della sessualizzazione e del trattarmi con poco rispetto.
G: La discriminazione l’ho vissuta in vari momenti. A scuola, al lavoro, o in contesti sociali, spesso mi veniva fatto capire — anche indirettamente — che il sapere “vero” era quello occidentale. Ma ciò che pesa di più è la violenza istituzionale e sistemica: le persone migranti non hanno le stesse possibilità di accesso a servizi, bandi, lavoro. Insieme a mia madre abbiamo dovuto lottare per ottenere cose che, per chi ha un passaporto italiano, sono automatiche.
U: I primi anni in Italia sono stati come una montagna russa: frequentavo l’università, imparavo una nuova lingua e cercavo di costruire nuove amicizie. In quel periodo ho riflettuto molto su ciò che aveva vissuto mia madre al suo arrivo e su tutte quelle donne costrette a fare sacrifici enormi per sostenere la propria famiglia, lasciando dietro di sé una vita intera. Un dolore immenso. In questo mi sono sentita davvero privilegiata. Naturalmente ho vissuto anche momenti di discriminazione, spesso sottili e mascherati.
A Milano, fin da subito, mi è stata fatta notare “la colorazione” della mia pelle: un aspetto a cui prima non avevo mai pensato, era semplicemente la mia pelle. Agli occhi degli altri, però, diventava un segno di differenza, spesso accompagnato da stereotipi e pregiudizi sulla comunità latina, ancora più pesanti quando si è donna. Questo però mi ha resa ancora più orgogliosa della mia diversità. Se non avessi costruito una coscienza sociale solida, avrei rischiato di alienarmi. Invece ho scelto di trasformare queste esperienze in forza e consapevolezza.
Come ti sei avvicinata alla musica e cosa significa per te fare la DJ oggi?
D: Da quando ero piccola, già alle elementari, mi affascinava la musica elettronica. Mi ricordo che ascoltavo Swedish House Mafia, Tïesto, Hardwell, Avicii e David Guetta. Mio padre mi ha portata al mio primo concerto di musica elettronica quando avevo circa 12 o 13 anni: era DJ Hardwell. Quel concerto ha cambiato tutto per me. Mi piaceva tantissimo guardare i video di Tomorrowland. Ero affascinata da tutta la cultura dei festival: da come la gente si vestiva, ballava, si esprimeva. Posso dire che il sogno di diventare DJ è nato in quel periodo.
Crescendo, avevo amici DJ e chiedevo a tutti di insegnarmi, ma per varie ragioni nessuno lo faceva. Fino a qualche mese fa, quando ho chiesto alla mix amicx e DJ riconosciutx — Donatella Chiara. Un giorno, a casa sua, le ho chiesto di insegnarmi, e lei ha preso la console, ha aperto il computer e mi ha mostrato tutto. Così, in modo diretto e naturale. Da quel momento si è aperto un nuovo mondo per me. Ho capito subito che era qualcosa che mi veniva naturale, e che ora non solo sentivo la musica in modo diverso, ma ero io a controllarla. Potevo scegliere i pezzi che mi piacevano e, ancora più bello, riuscivo a leggere le persone: capire cosa volevano ascoltare, cosa le faceva muovere. Tutti quei bottoni e numeri che prima mi sembravano complicati, ora hanno un senso.
Anche se sono ancora in una fase di esplorazione, al momento mi piace suonare Guaracha e Tribal, che sono generi messicani. Mi piacciono anche il perreo, il reggaeton, il latin core, il latin club, tutti i tipi di bass music come drum and bass, dub, e anche mashup di diversi generi.
DC: La musica è stata sempre molto presente nella mia vita, da quando ho memoria. La amo e scopro sempre cose nuove: è la mia parte preferita, ascoltarla. Nell’ultimo anno di liceo ho iniziato a produrre musica ambientale e mi sono circondata di amici molto talentuosi che facevano musica ma erano anche DJ. Sono stati loro a mostrarmi come lo facevano, e da lì è nato il mio interesse per il mixing.
Poco a poco ho iniziato a capire cosa volevo condividere con gli altri e, nel momento in cui mi sono trasferita a Milano, con malinconia ma anche con tanto amore, mi sono resa conto che mi piaceva far ascoltare la musica che ascoltavo — e soprattutto ballavo — con i miei amici in Messico. È stato quasi per caso, ma il reggaeton, il tribal messicano, i classici latini mi riempivano, e in forma di sperimentazione ho iniziato a mescolarli con ciò che ascoltavo qui: suoni completamente techno ed EDM.
G: La musica è sempre stata presente nella mia vita. Da bambina, ballavo in casa con la mia famiglia, durante le feste o nella quotidianità. Con una cuginetta registravamo cassette con un walkman e giocavamo a fare le conduttrici radiofoniche. Poi a Bogotá ho suonato in un gruppo di musica andina formato da migranti cileni: lì ho imparato a suonare i sikus e ad avvicinarmi alla musica delle Ande in chiave contemporanea. Alle superiori, con amiche e amici, organizzavamo piccole feste in casa dove giocavamo con Virtual Dj.
Ma il vero slancio è arrivato più tardi: dopo un lungo viaggio in Spagna e il rientro a Milano nel 2021, alcuni amici e amiche di militanza mi hanno chiesto di suonare a una festa al Parco Lambro. In quel periodo stavo imparando a mixare con un DJ e producer, e da lì è partito tutto. Insieme abbiamo creato Ex Altera, una piattaforma intersezionale che organizzava workshop, serate, performance in spazi diversi a Milano. È stato in quel momento che ho capito quanto suonare mi appassionasse.
Attraverso la musica ho potuto unire la mia ricerca personale e politica sulle radici dell’Abya Yala, partendo dai suoni afrodiscendenti delle coste caraibiche colombiane, per poi aprirmi a contaminazioni elettroniche, techno, psichedeliche e globali. Oggi suonare è per me un linguaggio intimo ma anche un atto collettivo: è un modo per raccontare storie, far emergere memorie, connettere lotte, far vivere movimenti e subculture che spesso restano invisibili. È cura, resistenza, connessione.
U: Ogni sabato o domenica, a casa mia in Perù, si facevano le pulizie generali. I miei fratelli prendevano dei buffer giganti e li portavano in cortile, ognuno con il proprio ritmo e la propria musica. Era una sorta di gara improvvisata, con ogni genere possibile, dal rock classico alla cumbia psichedelica. La musica è sempre stata presente nella mia vita, diventando il mio rifugio nel percorso da migrante: si soffre, ma con ritmo. Il desiderio di diventare DJ è nato in modo molto spontaneo, quasi nascosto. Poi un caro amico mi ha spinto: “Oye, es ahora o nunca” – dovevo lanciarmi. La musica per me rappresenta diversi stati d’animo e momenti della vita. È liberazione, ma anche atto politico e strumento di rivendicazione, senza mai dimenticare le radici da cui provengo.
Quali sogni hai per le donne latine nella musica in Italia?
D: Il mio sogno è che tutte le donne che desiderano diventare DJ possano avere le oopportunità e il coraggio di farlo, non per gli altri, ma per sé stesse. Ultimamente sento spesso dire: “Ormai fanno tutti i DJ, ce ne sono mille”, ma per me va benissimo così. Il mondo ha bisogno di diversità. Ognuno porta qualcosa di unico. La scena è ancora piena di uomini, e se devo essere onesta, penso che noi donne abbiamo un suono diverso, una sensibilità diversa. Mi rende felice vedere, negli ultimi mesi, sempre più corsi gratuiti per imparare a fare la DJ. Anche nel nostro collettivo, Nina Madonna, che abbiamo fondato l’anno scorso, offriamo uno spazio sicuro dove le donne e le persone FLINTA possono imparare. Dalla teoria alla pratica, senza giudizi.
Nei prossimi anni sogno di vedere lineup piene di DJ donne, tante di noi in testa ai festival. Vorrei che cambiasse il modo in cui le DJ donne vengono percepite. Che ci fosse lo stesso rispetto riservato agli uomini, gli stessi compensi, le stesse opportunità. Vorrei che fossimo riconosciute per il nostro talento, non per il nostro genere. In fondo, siamo tutti qui per divertirci e per condividere la musica. C’è una frase che mi piace molto: “Il sole esce per tutti.” Quindi se vuoi fare la DJ, fallo. Vai. Senza paura. Ti giuro che è una delle cose più divertenti che ci siano.
DC: Sogno che la nostra rappresentazione, in ognuna di noi, venga riconosciuta come merita. Che, così come alla gente piace ascoltarci e magari arrivano ad ammirarci, ci rispettino. Credo sia molto importante parlare del fatto che, come donna, è ancora una lotta costante chiedere rispetto in tutti gli ambiti del DJing — dai locali, alle feste, ai bar, ai collettivi — e anche nella parte economica, dove è così evidente che sembra sempre ci venga richiesto di dimostrare le nostre competenze e di implorare per un compenso dignitoso. Vorrei che avessimo una rappresentazione in tutti questi ambiti, e che non continuasse a predominare l’uomo cis sopra di noi.
G: Sogno una comunità in cui lo spazio per una diventi spazio per tutte e tutti. Vorrei che il lavoro delle donne della diaspora nella musica fosse riconosciuto per il suo valore, senza essere esotizzato o marginalizzato. Vorrei che ci fosse più possibilità di accesso reale, che le nostre pratiche artistiche fossero ascoltate, valorizzate, sostenute. Che non fossimo solo “invitate”, ma protagoniste della scena. Sogno una musica che sia luogo di cura, di potere condiviso, di immaginazione collettiva.
U: Per me, come donna latina migrante, la musica è anche un modo per affermare la nostra presenza e la nostra dignità. Sogno che noi donne latine non veniamo viste solo come ospiti, ma come parte viva della scena musicale in Italia. Vorrei spazi più inclusivi, riconoscimento reale e la possibilità di costruire insieme un futuro dove la nostra voce e la nostra storia abbiano lo stesso valore di tutte le altre. Noi donne migranti siamo agenti di cambiamento: portiamo prospettive nuove, creiamo ponti tra culture e contribuiamo a trasformare la società attraverso la nostra arte.
Articolo di Koki Flores
