Lola Young ha trovato la sua verità: «Se non smetto di fare quello che voglio, sto solo fottendo me stessa»
Sembra un controsenso, ma non lo è. La cantautrice britannica ha scritto un album sul suo dolore e sulla fuga dalle dipendenze. Dopo il successo di “Messy”, ha messo testa e anima al centro di tutto

Foto di Conor Cunningham
L’essenza del nuovo album di Lola Young, il perché nonostante il burn out e la notorietà mondiale conquistata con Messy sia tornata con un disco, è tutto nei due brani che chiudono la tracklist. Hanno quasi la stessa durata – cambia un secondo – e fa piacere pensare che non sia casuale. La fine è l’inizio di tutto. who f**king cares? è stato registrato come nota vocale alla fine dell’ennesima giornata segnata dalla dipendenza. Quando ne parla Lola è schietta: «Credo fosse il momento peggiore, il culmine della mia situazione».
Tre minuti e ventitré secondi in cui la sua voce quasi si spezza accompagnata solo dalla chitarra finché non arriva quel This is definetly not me a sfaldare l’atmosfera. Not Like That Anymore, a differenza dell’ordine della tracklist, è cronologicamente successiva: «L’ho scritta a New York il primo giorno che ho smesso di bere». Si balla sulle chitarre e sulla speranza di aver fatto pace con se stessi.
Come nell’artwork, in I’m Only F**cking Myself, ci sono due Lola Young. La bambola gonfiabile rosa e la ragazza che la sostiene. Il significato è il primo che viene in mente. Fottersi da soli per il gusto di farlo e perché è la propria natura. «Vorrei poter dire che, in generale, l’album significa semplicemente che uso il mio dildo rosa ogni notte» scherza sarcasticamente Lola. In realtà, nel disco racconta di tutti i modi in cui fotte se stessa. Che sia su un tappeto alternative rock con sfumature punk, che su ballate dove la componente “sporca” di basso e chitarra non manca mai.
«Sono diventata consapevole del mio dolore. In fin dei conti, se non mi rimetto in sesto, se non mi preoccupo di stare bene, se non smetto di fare quello che voglio davvero fare, ma non quello che devo fare, allora sto solo fottendo me stessa». Quando parla di quello che vorrebbe fare Lola non fa solo riferimento al sesso che popola in modo sbarazzino e incredibilmente coinvolgente l’opening F**CK EVERYONE – in cui parla con fierezza della propria bisessualità – ma all’alcol, le droghe e al desiderio di essere costantemente high. Invece quello che dovrebbe fare lo canta e scrive nel singolo d£aler, una lettera d’addio sofferta al suo spacciatore.
Oscurità e luce
«Credo che fosse la parte triste e infelice di me che ricorreva al sesso, alle droghe e a qualsiasi cosa mi capitasse a tiro per provare qualcosa». È questa l’altra spiegazione che Lola Young si è data. Il vortice nel quale era finita e che, egoisticamente, le ha poi fornito l’ispirazione per scrivere un album così personale, compare e scompare traccia dopo traccia. Ci sono scampoli di luce fittizia, come quella della hit One Thing, e lati oscuri di riflessione. Penny Out of Nothing potrebbe trarre in inganno con il ritmo cadenzato e danzereccio, ma è uno dei più drammatici dell’intero album oltre che dei meno immediati. Allo stesso tempo è la dimostrazione che l’artista londinese sta bene ovunque. La successiva Walk All Over You è la risposta colma di speranza. Post Sex Clarity
Questa alternanza tra oscurità e luce è un’altra delle caratteristiche principali di un album che gioca con gli alti e bassi emotivi di chi è in cerca di un equilibrio. La doppietta in capslock SAD SOB STORY! 🙂 e CAN WE IGNORE IT? 🙁 mostra due lati inediti della cantante. La prima è uno storytelling da crooner che sfocia nell’R&B. Il ricordo di Amy Winehouse fa capolino appena per poi essere spazzato via dal brano successivo in cui la protagonista diventa la band che l’accompagna da sempre. Lola Young chiede protezione per se e per i suoi sentimenti con uno dei momenti più rock di I’m Only F**cking Myself.
Il futuro
Ci sono tante contraddizioni nel personaggio di Lola Young, così come in questo suo terzo album. Basti pensare che il suo verso preferito che apriva la sua canzone preferita dell’album, alla fine è stato tagliato. SPIDERS in origine si apriva con la domanda: «Can you blame it on the gods so we don’t feel like we did something wrong?». Un incipit fragile e ironico allo stesso tempo. La quinta traccia di I’m Only F**cking Myself è difatto l’apice del disco. A livello vocale e di scrittura è un pugno sullo stomaco e la base stracolma di fuzz – il merito è del suo fidato produttore Jared Solomon (in arte Solomonophonic) – è il sottofondo perfetto per tutta l’insicurezza che l’artista britannica sputa nel ritornello portando la sua voce all’estremo.
Se l’avete conosciuta, e iniziato ad apprezzarla, per il suo lato scorretto e brioso, non preoccupatevi. Lo smalto scorretto e sbarazzino è rimasto intatto anche in questo album. È solo diventato più riflessivo e maturo. Prendete un brano come Post Sex Clarity e avrete la risposta che cercate. Lola Young ha scavato dentro il proprio tormento, ma la bambola gonfiabile è sempre lì. Non è una minaccia, ma una consapevolezza necessaria per proseguire nel processo di guarigione appena iniziato. E nel frattempo continuare a camminare e come, nel vocale della sua amica che fa da incipit dell’album, essere grati che ci sono le mucche e che l’erba è ancora verde.
Lola Young sarà in concerto, per la prima volta in Italia, il prossimo 29 maggio al Fabrique di Milano.