Dalla margherita alla consolle: la nuova vita di Matteo Cambi ex patron di Guru
Ve lo ricordate il brand dell’iconica margherita? Il suo fautore era stato Matteo Cambi con una storia appresso di successi-eccessi da riempire pagine e pagine di quotidiani e settimanali del gossip, ora fa il DJ a tempo pieno, lo abbiamo incontrato
Sulla triste parabola della sua storia, di là delle doverose cronache, molti giornali ci hanno gozzovigliato, affondando il coltello morboso, sino a farne carne da macello. Salvo, sottovalutare come Guru sia stata una case history, non ortodossa, pioniera degli influencer, nonché esplosa nei primi 2000, anche attraverso le discoteche e la musica. A caro prezzo, l’imprenditore ha sanato tutti i debiti con la giustizia e con sè stesso. Ora, l’ex mister Guru emblema della “riccanza”, è semplicemente Matteo Cambi. Giovane maturo, 47anni, determinato e puntiglioso sul lavoro. Sensibile, aperto e profondo nel dialogo. “Potata” l’epoca dello show-off, è rifiorito con successo, alla consolle: con un futuro immediato, pieno di progetti avvincenti. Li rivela a noi, in questa intervista esclusiva: un mix tra DJing, musica, costume, riflessioni e introspezioni.
L’intervista a Matteo Cambi
Dalla moda alla musica: curioso percorso?
Naturale evoluzione. Sin da ragazzino ho avuto la passione per la musica, in particolare italiana. Alle feste con gli amici, mi divertivo a mettere i primi vinili. Poi la prima serata al Bandolero di Casale di Felino. Ero ancora minorenne. Parallelamente, nei primi novanta ho iniziato ad andare in discoteca. Posso ritenermi un figlio dell’house music.
Quali locali frequentava?
La Villa delle Rose a Misano Adriatico, Il Pineta a Milano Marittima, l’Hollywood e il The Club, a Milano: club con musica commerciale. Col boom di Guru, la discoteca è diventata un mezzo promozionale per il mio marchio: una forma di comunicazione diretta al consumatore senza l’intermediazione dei media. Ho sponsorizzato dal Pineta di Milano Marittima, al Billionaire di Porto Cervo.
Torniamo in consolle…
Dopo le mie traversie, nel 2018 ho debuttato al Mentana 104 di Luca Farinotti. Facevo una serata fissa alla settimana: aperitivo e cena, accompagnati da buona musica italiana; pezzi intramontabili di Mina e Ornella Vanoni, per citare le mie preferite. Poi, la prima volta al fiabesco Ritual di Baja Sardinia. Purtroppo, dal 2020 il Covid ha bloccato tutto e tutti. Ma con la ripresa ho accelerato, per recuperare il tempo perduto.
Ha strumentalizzato la sua notorietà come le celeb che firmano profumi?
Non scientemente. Ma non nego che il mio nome sia stato d’aiuto. Più che altro, nell’ultimo periodo ho studiato col DJ, producer, Christian Lena. Gli sono molto grato, perché mi ha completato tecnicamente. La nostra è una professione che richiede molta preparazione. Dietro una stagione, ci sono mesi di preparazione. Per essere pronto a metà giugno di quest’anno, ho iniziato a lavorare ad aprile.
Progetti imminenti?
In autunno, farò qualche serata tra Milano, Cortina e Dubai.
Perché, Dubai è una tappa d’obbligo dei più grandi DJ?
Negli Emirati vogliono tutto il meglio del mondo e hanno le possibilità economiche per poterselo permettere.
Oltre alle serate, in autunno, farà altro?
Con l’aiuto di Lena, sto lavorando a un mio progetto come DJ Producer.
Questa è una notizia. E la radio?
Mai venuta in mente. Se non come ospite, intervistato. In consolle, raramente uso il microfono:preferisco che sia la musica ad esprimere e imprimere, il sentiment.
Perché, non sbraita e non si dimena come tanti colleghi? In consolle, sembra quasi raccolto in meditazione…
Mi piace restare concentrato, cercando di far saltare chi è di fronte a me.
Gianni Fabbri, indimenticabile patron de Il Paradiso di Rimini, sosteneva che il DJ fosse “uno sciamano”. Vale anche per lei?
Per certi versi, si. Sicuramene avere un certo magnetismo interiore, calamita la gente in pista. Fabbri che era un grande semiologo della notte, lo avevo percepito.
Quali apparecchiature usa?
Consolle e chiavette.
L’intelligenza artificiale?
No.
Che tipo di musica preferisce?
In questo periodo, impazzisco per l’afro house.
Quali DJ con relative etichette di riferimento, apprezza?
Gli internazionali: Maz, Black Coffee e Keinemusik ma anche molti italiani: Moblack, Gianni Romano, Simone Vitullo, lo stesso Christian Lena. Quanto alle etichette, Goodeva Records e Moblack Records per l’Afro House.
Perché piacciono i mash up con pezzi del passato?
Per la generazione Z, ciò che è anteriore al 2000, è sconosciuto. Quindi, una novità attraente, se riproposta col linguaggio attuale. E poi siamo nell’era delle condivisioni.
Dunque, inserisce nella sua playlist, brani vintage?
Certo. Ho una chiavetta di evergreen con diverse versioni di motivi, rieditati da me, in chiave house, tech house. E afro house, ovviamente.
Il suo preferito?
The Rhythm Of The Night, cantato da Corona pubblicato nel 1995. In pista, funziona molto nelle mie serate.
Come sono cambiati i locali?
Sono mutati sia i club, che i gusti del pubblico. Molti insegne storiche si sono addirittura spente. Altre, hanno dovuto riadattarsi. Al momento, la mia dimensione preferita è il piccolo club da 250/300 persone.
Bob Sinclar sostiene che “si balli di meno”. Vero?
Oggi, i ventenni in simbiosi col cellulare, sono più concentrati, a filmare e fare selfie per i social. A dispetto dell’ascolto del djset.
Oltre all’attenzione, si è abbassata anche l’età nella quale usano di droghe?
Probabilmente, fanno tutto prima di entrare nel locale. Arrivano già carichi. Il grande cambiamento da analizzare, sarebbe cosa avviene fuori dalla discoteca: il prima, più che il durante.
E se il pubblico è di boomer come alla recente festa dei mitici bagni Piero al Forte dei Marmi?
Ripercorro evergreen anni ‘70-‘80, dove si sente la batteria suonata dal vivo e non riprodotta, al computer.
Musica italiana?
Solo per feste in spiaggia di giovanissimi.
Tornano i vinili: questioni di suono o di cool vintage?
Ambedue. Il vinile ha un suono più dolce e meno metallico. Mentre, vedere un DJ che mixa solo in vinile, esercizio non facile, ha un certo fascino rétro.
Va ancora il riempi-pista?
Si, ma devi essere informato, consultando le classifiche. I gusti della gente influenzano la playlist, poi il DJ può personalizzarla. In tal senso, creo chiavette ad hoc con suoni miei: come un abito semi sartoriale.
Legge o guarda film, per prepararsi?
Più che altro, ascolto playlist musicali sia su Beatport che Spotify. Sono spesso in macchina per spostarmi da una serata all’altra.
Viene dalla moda e se ne occupa ancora come consulente creativo e ghost creator. Quanto influenza il suo lavoro di DJ?
Trasferisco alla musica, la ritmica veloce. E osservo i comportamenti: lo zeitgeist.
Come ha costruito la sua immagine di scena: T-shirt bianca o nera, jeans e giubbotto di pelle?
Non costruendola. Questo è il mio abbigliamento da sempre. Non riesco a immaginare i colori. Sono un po’ rock. Ho solo una giacca colorata di Dolce&Gabbana. Unica nota particolare, la collana della quale ho una passione sin da piccolo.
Arte e djing sono legati. Fa testo Jean Michel Basquiat che mixava e suonava al Mudd Club di New York. Lei ama l’arte?
“L’arte scuote dall’anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni”, come disse Picasso. Mi piacciono la semplicità incisiva in senso lato e reale, dei tagli di Lucio Fontana e il primo sacco di juta rattoppata e ricucita di Alberto Burri. Ma il mio massimo, è Damien Hirst: “L’impossibilità fisica della morte della mente di un essere vivente”.
E ci risiamo con gli anni ’90. C’è stanchezza per i prodotti industrializzati e la massificazione delle griffe: si fiuta un desiderio di artigianalità che rimanda all’etnico. Un corrispondente musicale?
Nella mia afro house, l’Africa è un ritorno ai primordi, alla dimensione umana ancestrale, non industrializzata, alla manualità lenta. Infondo certezze e serenità ai giovani. Ne hanno davvero, tanto, bisogno.
Cosa le ha insegnato questo lavoro di DJ?
A riacquisire auto stima.
Nei momenti più difficili, che ruolo ha avuto la musica?
Non la sentivo e non l’ho più ascoltata per 5 anni. Non accendevo neanche la radio. Ogni brano era un ricordo…
Con la moda, però, continua?
Dal 2012 al 2016, sono stato chiamato come consulente di Guru, dai nuovi proprietari del brand: unico caso al mondo.
Da manuale. Ma adesso?
Sto riflettendo su un progetto ambientalista. Dai tempi della margherita, la moda, il mondo, sono trasfigurati. Eguagliare i livelli di Guru, credo sia impossibile. Vedremo. Non è detto che debba fare anche la moda. Sei tu, e non il tempo, a decidere, quando è il momento di spegnere “la musica”.
Articolo di Gianluca Lo Vetro