I National e il fanservice di cui non faremmo mai a meno
La band statunitense si è esibita nella prima delle due date italiane. Al Carroponte a Milano, non è stato solo un grande show rock, ma una seduta condivisa tra pubblico e band
A poche ore dall’inizio del concerto, quando a Milano il temporale stava raggiungendo il proprio apice, il profilo ufficiale dei National ha pubblicato nelle storie una foto di Matt Berninger in procinto di salire sul palco per il soundcheck. Vestito in completo nero e sorridente mentre si riparava con quello che sembrava il coperchio di un cassonetto. Una cosa strana che raramente la band fa prima di uno show, probabilmente fatta per tranquillizzare i fan preoccupati per un possibile rinvio. E invece i National ci tenevano troppo a suonare al Carroponte, come ricordato a più riprese durante le due ore e un quarto di concerto: Milano è sinonimo di “famiglia” e non solo per Luigi, cognato dei gemelli Dessner che ci vive. D’altronde il pubblico è una delle componenti imprescindibili per il gruppo, come recita il cartello di Matt Berninger: “10 Years of fanservice”.
Matt Berninger e il pubblico
Una delle cose che colpisce di più dei National è la loro capacità di guidare e influenzare l’umore del pubblico. Basti pensare all’ingresso euforico sul palco di Matt e soci. Poi, il tempo di togliersi la giacca a vento e mostrare il suo classico outfit, e parte il pianoforte di Once Upon a Poolside, brano d’apertura del loro penultimo album Two Pages of Frankenstein. La definitezza e la cura dei dettagli mettono ancora più in evidenza la voce di Berninger che entra subito nella parte, ammesso che sia corretto utilizzare tale espressione. Perché il frontman vive letteralmente i suoi brani, li reinterpreta rendendo ancora più cupo e graffiante il timbro. Come nel ritornello di Eucalyptus urlato con rabbia e disperazione.
Se qualcuno aveva dei dubbi riguardo il suo possibile stato di forma dopo il weekend del Primavera, ieri è stato smentito in toto. Matt Berninger dà l’impressione di avere bisogno del palco e della musica tanto quanto del pubblico con cui cerca in continuazione un’interazione. Alterna movenze e balletti sconclusionati, mima le parole che canta, indica gli spettatori e scende più volte dal palco per interagire con loro. Talvolta è sembrato quasi che le parti si fossero ribaltate: è lui a cercare il contatto, a voler “toccare” con mano il coinvolgimento di chi è lì per ascoltarlo. In questo senso Demons, una delle prime sorprese in scaletta, diventa una seduta collettiva per tutti i presenti.
Una sensazione simile l’hanno provata tutti i presenti durante il grande classico I Need My Girl – sì, i National ieri a Milano hanno suonato cinque pezzi tratti da Trouble Will Find Me – dedicata da Matt a sua moglie che non vede da un po’ per via del tour. Le presentazioni dei brani, molto frequenti, avevano due temi principali: fatti ed esperienze personali, oppure gli Stati Uniti. Dessner e company hanno “dedicato” Abel a Donald Trump e Mr November a Joe Biden, ma soprattutto hanno regalato al pubblico una stupenda Fake Empire. L’unico brano dal vivo (purtroppo) di Boxer è stato anticipato dal grido “ceasefire” e da un breve discorso riguardo al diritto all’aborto.
Dieci anni di fanservice: la bugia
A un tratto, durante la fase centrale del concerto, Matt Berninger ha alzato un cartello con scritto “10 years of fanservice”. Dieci di anni di fanservice. Un’affermazione ironica che nasconde una menzogna e una grande verità. La bugia è la meno evidente: un concerto dei National non è pensato per essere un contentino per i fan. Basta guardare la scaletta. Da live a live cambiano e includono brani meno noti che sostituiscono quelli che uno si aspetterebbe. Ieri sera è stato il turno di I’ll Destroy Tou e Cherry Tree. La scaletta, oltre al già citato Trouble Will Find Me, ha premiato soprattutto High Violet. Oltre all’immancabile e struggente Terrible Love, sono stati eseguiti altri quattro brani dal disco.
I National hanno dato vita a un live muscoloso dal punto di vista chitarristico, ma raffinato e curatissimo in ogni minimo suono. Don’t Swallow the Cap, Bloodbuzz Ohio ed England sono tra le prove migliori grazie anche alla prova di Bryan e Scott Devendorf. Buona parte della setlist è stata dedicata ai brani degli ultimi due dischi, al quale forse è stato dedicato uno spazio troppo ampio che, in alcuni momenti, ha rischiato di far scendere la tensione. Se Alien e Laugh Track – «La canzone più bella che abbia mai scritto» dice Matt – nonostante l’arrangiamento più rock non catturano troppo il pubblico, Smoke Detector e Space Invader guadagnano punti rispetto alle versioni in studio.
Il fanservice, quello vero
La verità che si cela dietro al cartello mostrato dal gruppo la si comprende da come i National hanno chiuso il concerto di Milano. Prima About You, poi il finale acustico di Vanderlyle Crybaby Geeks sono stati il vero momento catartico. Durante l’ultimo brano in scaletta Matt Berninger ha guidato il pubblico facendo cantare i presenti e suggerendo loro le parole del testo. Non si tratta di una novità, accade spesso ai loro concerti, ed è un momento ideale durante il quale affrontare e condividere i propri demoni.
È quello che ha da sempre caratterizzato i National. Una band indie rock statunitense atipica, figlia del post undici settembre, che ha messo al centro della propria poetica il quotidiano. Famiglia, relazioni e lo spettro dell’alcolismo. Una sfida, quest’ultima, che Matt ha vinto ed è impossibile non sospettare che i bicchieri lanciati in aria ieri sera dal frontman, oltre a essere una testimonianza della sua rinnovata energia, non abbiano un significato più profondo. Artista e pubblico sono uniti nel trauma. Un trauma da accettare senza avere la presunzione di superarlo per sempre, ma con la volontà di conviverci nel migliore dei modi possibili. Magari con la musica.