«Stop! You are beautiful!». Nick Cave incanta Milano con la sua messa (nera) e gospel
Ieri all’Unipol Forum è arrivato il songwriter australiano con un concerto epico, empatico e una band pazzesca che non si è risparmiata mai nelle due ore abbondanti di show
C’è un coro gospel (Miça Townsend, Wendy Rose, Janet Ramus e T Jae Cole) vestito con camicioni bianchissimi ed è in alto, nel centro del palco. Accompagna Nick Cave in questo tour che nel suo corpus centrale, si regge sulle canzoni della sua appena conclusa quadrilogia. Un intenso viaggio personale che Cave ha intrapreso nell’ultimo decennio. Da Skeleton Tree, che racconta la dolorosa fine di una relazione, Ghosteen, con al centro il tema del dolore e Carnage dove è protagonista la rabbia, fino al recente Wild God che è pervaso dal senso dell’accettazione. Appena inizia il concerto con la doppietta dall’ultimo Wild God, si vedono alzarsi le mani del pubblico dell’Unipol Forum di Milano davanti a Nick Cave, quasi alla ricerca di una benedizione del loro preacher di questa notte, intensa e bellissima.
Nel concerto aleggia la presenza dell’ultimo Elvis Presley
Sappiamo dell’interesse di Cave per il King of rock’n’roll. Ieri sera lui l’ha ricordato non solo con la presenza del coro gospel, un genere che fu sempre amato da Elvis Presley, oppure con l’immancabile classico Tupelo. Ma anche con una certa ritualità sotto palco, concedendo ai fan di farsi asciugare il sudore con i fazzoletti lanciati dalle prime file (per poi restituirli con grazia). Un gesto che rientrerebbe a tutti gli effetti nella ritualità del rock, ma che in una cornice come questa oseremmo definirlo semi sacro, quasi una “Sacra Sindone”. Cave non fa stage diving (forse a quell’età l’unico che ha il coraggio di farlo è Iggy Pop) ma flette il suo lungo e sempre esile corpo verso la platea e per alcuni attimi si fa reggere da loro.
È tutto una messa laica. Una celebrazione ed è forse la migliore maniera che Nick Cave ha trovato per trasferire addosso al nostro corpo, alle nostre emozioni la sua personalissima odissea, spesso tragica. Così singolare in un’esperienza da palazzetti. Spesso durante la serata mi sono venute in mente quelle immagini fortissime di un Nick Cave cupo e rock che si piegava di fronte alle prime file al Rolling Stone di Milano quando lo vidi per la prima volta dal vivo. Era il 1989. Anche lì traspariva in nuce, una certa sacralità, ma allora Cave era un martire del nichilismo adolescenziale.
Cave attacca O Children: «Una canzone che ho scritto 22 anni fa, guardando i miei figli piccoli giocare». Ci vengono i brividi pensando a cosa a quali immani tragedie gli siano successe nel corso degli anni successivi. A distanza di solo 7 anni ha perso due dei suoi figli. Nick chiede al pubblico di cantarla assieme. Altro momento di catartica comunione. Nelle canzoni di Nick Cave però non mancano anche le presenze femminili. Sono tante ad averlo ispirato. Nella scaletta si va dalla ragazza sola nella stanzetta di Jubilee Street, al ricordo di una amica e artista come Anita Lane. Durante Oh Wow, Oh Wow, scorrono le immagini in bianco e nero di Anita che danza leggera con dietro una scogliera.
L’arrivo dei grandi classici di Cave
I momenti iconici della carriera di Cave vengono celebrati con alcuni imperdibili classici. C’è la già citata Tupelo, poi The Mercy Seat, con la band di Nick Cave che si fa sentire forte. Una band che non si avvale solo della preziosa presenza di Warren Ellis che gigioneggia alla grande, lanciando baci al pubblico come se fossero sassi nell’Oceano per poi lasciarci quella sensazione di leggerezza mentre canta con la sua voce sottile e limpidissima. Ci sono anche l’immancabile Jim Sclavunos, Colin Greenwood dei Radiohead al basso, George Vjestica alle chitarre, la tastierista Carly Paradis e Larry Mullins alla batteria.
Non manca nel set prima dell’encore, anche la sempre sexy e caldissima Red Right Hand, apprezzatissima dal pubblico. Ricordiamo un’intensissima versione di I Need You dove in primissimo piano per la prima volta ci sono Nick e il suo pianoforte. Nel finale Cave si scatena ancora con il pubblico e lo invita a scambiarsi reciprocamente la frase Stop! You are beatuful!. Un momento ancora da messa gospel, accentuato dalla sempre magnifica Papa Won’t Leave You, Henry. La voce di Cave si contorce in urla e gemiti per esprimere appieno l’angoscia della storia. Il ritmo (battuto da tutti gli strumenti) incalza sempre più forte.
Poi arriva Weeping Song. Quella cadenza voodoo ci ricorda ancora quasi scaramanticamente che il pianto è quella immensa forza liberatrice sul dolore che non dobbiamo mai dimenticare di sopprimere. Un abbraccio finale con il pubblico di Milano Nick Cave ce lo regala con Into My Arms. Una strana notte umida e calda cala su Milano. No, non siamo in Louisiana, ma poco importa.