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Kurt, myself and I

Si avvicina il 5 aprile, che quest’anno segna il trentennale esatto dalla morte del frontman dei Nirvana. L’omaggio di un ex adolescente, per sempre riconoscente

Autore Federico Durante
  • Il3 Aprile 2024
Kurt, myself and I

I Nirvana: da sinistra, Krist Novoselic, Dave Grohl, Kurt Cobain (foto di Chris Cuffaro)

Con tutta la grande musica che i primi anni ’90 hanno prodotto, questi anni ’20 del nuovo millennio traboccano di trentennali importanti. Ma pochi eventi hanno segnato un prima e un dopo nella storia della musica quanto la morte a 27 anni del tormentato frontman dei Nirvana: l’anniversario “tondo” della scomparsa di Kurt Cobain è senza dubbio il più importante di quest’anno.

La morte di Kurt Cobain

Cobain si congedava da questo mondo il 5 aprile 1994 dopo aver assunto una robusta dose di eroina, aver scritto una lettera di addio alla moglie Courtney Love e aver rivolto contro se stesso la canna di un fucile da caccia. Trent’anni: è passato più tempo dalla morte di Kurt Cobain di quanto lui ne abbia vissuto nella sua breve vita.

Al momento della morte di Kurt Cobain io ne avevo quasi cinque, di anni. Ne avrò sentito parlare in qualche telegiornale, anche perché poche settimane prima aveva fatto scalpore il suo ricovero per overdose proprio in Italia, al Policlinico Umberto I di Roma. Ma va da sé che per me sia sempre stato uno dei tanti morti illustri che avevano fatto la storia del rock.

Quando iniziai il liceo non erano passati neanche dieci anni dalla morte di Kurt Cobain, ma mi sembrava un passato lontanissimo e mitologico. Oggi un evento del 2014 mi sembra accaduto l’altro ieri. Ad ogni modo, pur trattandosi di un gruppo che non ho mai amato di amore assoluto, quella dei Nirvana e di Kurt Cobain è stata una presenza vicina e amica che ha attraversato tante fasi della mia vita. Ripercorrerle in occasione di questa ricorrenza mi pare il modo più sincero per rendere omaggio al più grande talento rock della sua generazione.

La scoperta dei Nirvana

I primi anni Duemila, quando mi avvicinai ai Nirvana, erano ancora tempi in cui la musica era circondata da una sorta di attesa. Streaming e social media non c’erano, di conseguenza la scoperta musicale – al di fuori dei canali “istituzionali” come radio e MTV – avveniva perlopiù tramite passaparola, in genere da parte degli amici più grandi.

Sicché i Nirvana e Kurt Cobain mi si disvelarono a poco a poco. La prima cosa ad arrivarmi non furono le canzoni, bensì un’indefinita idea di cupezza, di solennità e di musica per qualche motivo molto “heavy”. Ed effettivamente è rock pesante, ma non nel senso canonico del metal come mi immaginavo allora nella mia testa.

Il mio primo disco dei Nirvana non fu Nevermind. Fu il greatest hits del 2002, quello contenente l’inedito You Know You’re Right. Regalo di Natale o compleanno, il CD troneggia ancora nella mia libreria con la sua copertina minimale e splendida: logo grigio su sfondo nero. Che bella scelta stilistica: avrebbero potuto mettere una qualsiasi foto d’archivio della band, ma nessuna immagine avrebbe riassunto la musica e la vicenda umana di Cobain meglio di quella triste monocromia.

Il best of fu un’ottima introduzione alla musica dei Nirvana, e lo è ancora oggi. Nel giro di quindici tracce fa una panoramica completa sulla loro produzione, con brani dai tre album in studio (Bleach, Nevermind, In Utero), dall’MTV Unplugged, dalla raccolta di demo e outtakes Incesticide (con la fondamentale Sliver), più il brano inedito. Una selezione tuttora validissima.

Il liceo e il mito di Cobain

Ça va sans dire, gli anni del liceo furono quelli di più intensa passione per Kurt Cobain e i Nirvana. Qualche flash in ordine sparso: l’eyeliner nero sfoggiato per apparire più tenebroso e cool; Territorial Pissings sparata a tutto volume dallo stereo portatile sul traghetto per Patrasso (sorprendentemente nessun altro ospite del passaggio ponte venne a intimarci di abbassarlo); l’immancabile cover di Smells Like Teen Spirit suonata con la band del liceo (immancabilmente in modo approssimativo: è un pezzo facile, ma eseguirlo correttamente è un’altra cosa).

Sullo zaino di scuola, il loro logo tratteggiato a pennarello campeggiava accanto ad altri numi tutelari del mio personale pantheon rock: Ramones, AC/DC, Red Hot Chili Peppers. Random ma non troppo. All’epoca comunque mi sembrava una selezione estremamente coerente: era la mia musica, anzi la musica, e tanto bastava.

Dopo Nevermind fu la volta di Bleach, con il conseguente piacere di scoprire le cose più underground e ruvide di quel grezzo album d’esordio (notevole per certi aspetti, ma non un capolavoro). A partire dalle primissime note, con quel cavernoso intro dell’opening track Blew, col basso accordato in drop C. Allora mi sembrava la cosa più pesante e “metal” del mondo.

I Diari

Ma non si trattò solo di musica. I Diari di Kurt Cobain furono una lettura fondamentale. Era emozionante leggere la vita di Kurt attraverso i suoi pensieri e la sua stessa grafia. Del resto quando scriveva quelle pagine aveva solo pochi anni più di me. Nonostante la qualità dell’edizione, ricordo anche un sacco di evidenti errori (fra cui la terribile locuzione “accordo del potere”, evitabile traduzione dell’inglese “power chord”: chissà se nelle edizioni successive l’hanno sistemata).

A 15 anni, sulla scorta di questo piccolo bagaglio culturale, a chi mi diceva che i Nirvana erano “rumore” e metteva in discussione il genio di Kurt Cobain rispondevo semplicemente che lui era tale perché “era stato il primo a urlare certe cose”. Non sapevo neanche cosa volessi dire esattamente con quella dichiarazione così assertiva, ma col senno di poi avevo proprio ragione. Nessuno prima di Kurt ha cantato (o meglio, sputato, vomitato) il malessere postadolescenziale come e meglio di lui.

Disamoramento e riscoperta

Incredibilmente, con la fine del liceo e dell’adolescenza si ruppe un incantesimo. I Nirvana e Kurt Cobain non mi piacevano più. Peggio ancora: iniziai a vederli come gruppo sopravvalutato, che dietro la propria aura di leggenda era in realtà molto scarso. La valutazione risparmiava Dave Grohl, che era ed è un buon batterista, ma non Cobain e Novoselic, chitarrista mediocre e bassista anche peggiore (giudizio che fu troppo severo: Krist nel complesso ha avuto un approccio al basso piuttosto creativo, nonostante gli evidenti limiti di tecnica).

Questa fase di rigetto è durata molti anni, in pratica un decennio dopo la fine del liceo. Alla fine era quasi diventata una posa intellettuale, un modo snob con cui darsi delle arie da “vero esperto di musica” scandalizzando gli altri con la demolizione di un mito.

Ma inevitabilmente da più parti ero sempre respinto indietro verso i Nirvana. Tanti gli stimoli: i video di Rick Beato in cui lui analizza le canzoni dei Nirvana svelandone la ricchezza melodica e armonica; una bella intervista in cui Chris Wolstenholme, bassista dei Muse, mi raccontava come In Utero gli avesse cambiato la vita; e in generale tutti i gruppi e gli artisti che citavano i Nirvana come influenza fondamentale.

Alle soglie dei trent’anni quindi ho ripreso in mano Nevermind e In Utero. La lunga “astinenza” ha fatto sì che li ascoltassi con orecchie fresche, godendomi sfumature e finezze di songwriting che inizialmente non avevo notato e finalmente spogliando quei dischi di quell’aura mitica che avevano quando ero teenager. Una piena rivalutazione, su basi più equilibrate: niente venerazione incondizionata ma apprezzamento del talento ineguagliato di Kurt come songwriter.

I miei 15 anni non torneranno e non tornerà neanche Kurt. Ma sono dischi che oggi riascolto per ricordarmi quanto profondo sia stato l’impatto esercitato da Kurt Cobain e dai Nirvana sulla musica del loro tempo e su quella a venire. E quanto rigogliosi possano essere i fiori che nascono dal letame più immondo.

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