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Il restauro di “Pink Floyd At Pompeii” è un trip e un sogno nitidissimo

Siamo stati al cinema per vedere la nuova versione restaurata, in Dolby Atmos, dello storico film del quartetto inglese. Un’esperienza al limite del metafisico, tra predizioni sul futuro dei membri e incroci onirici delle immagini in dissolvenza La musica? Ancora magnifica

  • Il18 Aprile 2025
Il restauro di “Pink Floyd At Pompeii” è un trip e un sogno nitidissimo

Talvolta le operazioni di restauro del passato della musica rock riescono ad essere davvero potenti. Nel caso di Pink Floyd at Pompeii non si trattava “solo” della versione espansa di un capolavoro di decenni fa, ma di un lavoro eccezionale di restauro di un’opera che è rimasta nell’immaginario collettivo dei fan del gruppo e di tutti quelli che amano la storia della musica. A proposito, a un certo punto del film si parla della fine del rock. Siamo nel 1971, chi oserebbe pensare oggi che qualcuno dubitasse del genere in quel momento storico?

Ci pensa David Gilmour a scherzarci su nella parte del lungometraggio legata al passaggio negli studi di Abbey Road. E c’è Roger Waters che parla dell’uso delle macchine e della tecnologia nella musica. «Noi le stiamo affrontando adesso, ma sarà sempre l’artista e l’uomo a decidere fin dove spingere la tecnologia e definire un’opera artistica». Parole che fanno venire i brividi oggi ad ascoltarle nel buio di una sala. E tutti potranno farlo dal 24 al 30 aprile nelle sale e finalmente anche in formato fisico e digitale dal 2 maggio.

Pink Floyd At Pompeii – MCMLXXII è un evento nell’evento, visto che il film concerto non era mai stato pubblicato in formato fisico e digitale. Va segnalato che questa versione è più lunga di 30 minuti. Il monteggio completo di 90 minuti è stato realizzato combinando la sorgente primaria del lungometraggio, che coglieva i 60 minuti della performance, con i segmenti aggiuntivi del documentario girato agli Abbey Road Studios e di poco successivo alla “visita pompeiana”.

La bellezza del luogo, tra affreschi e sculture

L’operazione di restauro rende ancora più emozionante l’esperienza dei Pink Floyd a Pompei. E non solo ci ha guadagnato la musica, ma anche le immagini. Magistralmente restaurate da Lana Topham fotogramma per fotogramma dai negativi originali in 35 mm scoperti in cinque barattoli etichettati negli archivi della band! Una visione che parte dall’alto (altro che droni…) per un progressivo close up verso il centro in terra battuta dell’antico e suggestivo Anfiteatro di Pompei.

Nel film-performance si apprezza anche tutta la ricchezza e la bellezza iconografica della città che la regia di Adrian Maben aveva intelligentemente integrato con le immagini del quartetto inglese. Dalle decorazioni in stucco agli affreschi delle lupanari, spesso ad alto tasso erotico. Dai dettagli sulle pozze vulcaniche, alle terrorizzanti figure scolpite nella roccia viva. Le tecniche avanzate garantiscono la massima nitidezza dei dettagli. Alla qualità dell’audio ci ha pensato anche il “magic touch” di Steven Wilson per un esaltante Dolby Atmos che preserva comunque l’autenticità della versione originale del 1972.

L’incedere mistico della musica dei Pink Floyd che flirtano con le nuove tecnologie

L’emozione sale fortissima sin dall’inizio quando parte Echoes Part 1. Le note del piano di Wright che paiono gocce cristallizzate segnano il tempo della suite di 23 minuti mentre vedi i Pink Floyd allineati al centro dell’Anfiteatro, a torso nudo sotto il sole cocente del sud Italia. Con loro i pochi presenti, anche questi a petto scoperto, i contatissimi fonici e tecnici di ripresa, nulla più. Arriva subito dopo Careful With That Axe, Eugene con i suoi magnifici orientalismi ipnotici. Si crea un’atmosfera di tragedia incombente e le immagini si collegano istantaneamente agli orrori dell’eruzione del Vesuvio di quasi duemila anni fa, evidenziando come serenità e cataclisma potessero coesistere in un secondo.

Ipnotica è anche la visione di Nick Mason (con una deliziosa t shirt con farfallina nel mezzo del petto) che fa danzare le sue bacchette, virando sempre a destra del suo drum kit, durante lo sviluppo di A Saucerful of Secrets, uno dei momenti della loro discografia forse più vicini all’eredità barrettiana.

Dopo i momenti più psichedelici del live, compresa la cosmica e mistica Set The Controls For The Heart Of The Sun, irrompe il fulmine One Of These Days. Il riff di basso di Waters corre lungo un binario infinito mentre Gilmour compie i suoi assoli quasi hendrixiani. Ci si dimentica di dove si è. Un cinema? Un sogno? Un trip decisamente. A riportarci sulla Terra durante la visione sono due episodi spassosi. I dialoghi a pranzo tra il quattro membri dei Pink Floyd – sembra che siano in una mensa aziendale – durante le pause negli studi di Abbey Road. E poi rivedere sul grande schermo i guaiti di Seamus – il bellissimo border collie di Steve Marriott (degli Humble Pie e prima grande protagonista della scena mod con gli Small Faces) che “canta” durante l’esecuzione di Mademoiselle Nobs. Canzone quest’ultima che era contenuta in Meddle.

Non finiranno qui le esperienze con i Pink Floyd. Annotatevi – eccetto ovviamente i superfan – questa data: 12 settembre 1975. Usciva Wish You Were Here. Ne sentiremo e ne vedremo ancora delle belle.

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