Hail to the Radiohead: la magia è ancora intatta
Il ritorno in Italia della band inglese all’Unipol Arena di Bologna è stato travolgente. Scaletta, suoni e voglia di suonare e vivere il momento con i fan: non è mancato nulla
RADIOHEAD PHOTOGRAPHED BY ALEX LAKE WWW.TWOSHORTDAYS.COM INSTA @TWOSHORTDAYS
Difronte al palco circolare al centro dell’Unipol Arena, poco prima delle 20:30, mentre in sottofondo va un effetto sonoro oscuro e i led che lo circondano e lo chiudono si illuminano casualmente, ma comunque a ritmo, in testa frullano ancora dei dubbi. Quella di Bologna non è la prima data della reunion dei Radiohead che hanno già convinto tutti nei primi quattro show spagnoli. In questi casi però, finché non si vede (e si sente), non ci si crede.
Quando la band ha annunciato il ritorno dal vivo, per motivi diversi, all’entusiasmo immediato, si era accodato un senso d’incertezza. Il fatto che fosse un tour concepito senza l’idea di scrivere e suonare nuova musica e soprattutto l’intervista esclusiva rilasciata al Times poco prima della partenza. Rilasciata in momenti separati dai componenti (ad eccezione di Thom Yorke e Jonny Greenwood, insieme nello stesso luogo) e con qualche dettaglio che lasciava presagire il peggio: il fatto che per la prima volta avrebbero avuto i camerini separati, la questione israelo-palestinese ad aleggiare su tutto e il silenzio intercorso tra i membri raccontato da Ed O’Brien, l’unico della band ad aver preso una posizione netta contro il genocidio. E quel palco che deve ancora schiudersi che sembra il ring di Hell in a Cell che suscita immaginari contrastanti di lotte intestine.
Flashforward: sono passate oltre due ore, la prima data bolognese si è conclusa con il classico, sempre coinvolgente Karma Police, sui grandi led rimasti ancora sollevati scorrono gli articoli della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e tutte le incertezze sono svanite. La magia perversa e spigolosa che solo i Radiohead riescono a creare è ancora intatta. Lo spettacolo è stato travolgente ed emozionante allo stesso tempo.
La scaletta ha omaggiato tutti i dischi (ad eccezione di Pablo Honey, ma quello era prevedibile) concentrandosi soprattutto su Hail to The Thief e Ok Computer. Il primo, del quale è uscito da poco un live, è stato il più “facile” e veloce che il gruppo abbia mai registrato in carriera. Il secondo è quello che ha rischiato di farli implodere per via del successo, del tour estenuante tra il 1997 e il 1999 e della voglia di abbandonare il rock e le chitarre di Yorke.
Planet Radiohead
Degli opening proposti fin qui dai Radiohead nel corso del tour, quello di ieri sera a Bologna è il migliore. Planet Telex è l’intro perfetta. Pensando alla loro intera discografia, solo Everything in Its Right Place ha lo stesso impatto come intro di un album. Ma a quel brano ci arriveremo poi. Durante tutto il primo pezzo della scaletta gli schermi rimangono abbassati proiettando le immagini distorte e combinate dei cinque all’opera. Li puoi intravedere a malapena, ma il distintivo suono rock che contraddistingue tutti i brani di The Bends, arriva benissimo sulle tribune. Solo quando le chitarre esplodono definitivamente con 2+2 = 5 il palco si apre mostrandoli ai fan senza alcuna barriera protettiva.
Thom Yorke è una mina vagante che suona tutto ciò che tocca e gira per il palco. Si percepisce la sua voglia di stare lì, di suonare quei brani e perdersi nei meandri ritmici della drum machine. Nel finale di Sit Down. Stand Up. balla scatenato e per osmosi contagia l’intero palazzetto. Così accadrà anche durante 15 Step, Ful Stop e ovviamente Idioteque. E la sua voce risuona in modo nitido come durante Lucky. Jonny Greenwood è il solito Jonny. Bruciante con la sua chitarra elettrica in Bodysnatchers o nel finale di Paranoid Android, elegante e jazzy durante Subterranean Homesick Alien, rannicchiato su se stesso al piano e in trance alle percussioni o allo xilofono durante Bloom e No Surprise.
Suo fratello Colin, come spesso accade, è quello che lascia trasparire maggiori emozioni insieme a Ed O’Brien. Il primo ne approfitta spesso per guidare il battito delle mani dei fan, il secondo, tra una chitarra da cambiare, un loop da programmare e i cori (sempre perfetti) da intersecare con la voce di Thom, indica il pubblico e incita al canto durante il terzo “atto” di Paranoid. È lui l’ultimo a lasciare il palco quando finisce il concerto. E non ultimo per importanza, Philip Selway: al centro del palco circondato da strumenti, instancabile, incessante e sempre sul tempo come un computer.

Un’onda lunga
Per tutte le due ore di concerto i Radiohead sono riusciti a ipnotizzare il pubblico di Bologna senza parlare. È una costante dei loro live e anche di quelli dei The Smile, ma per riuscirci devi essere al tuo massimo. Thom regala ai fan un “Buonasera” dopo l’estasi del quarto brano in scaletta Bloom, un “tutto bene, sentite bene?” all’incirca a metà show e il “buonanotte grazie” dopo il finale anni ’90 con Just e la già citata Karma Police. La dimostrazione che tutti i dubbi sulla reunion erano infondati è, non solo la prova dei cinque, ma la reazione dei presenti.
Se l’inizio del live, dati gli otto anni di assenza, può giustificare l’eccitamento, non ci sono mai momenti in cui il pubblico si libera dai fili dei cinque burattinai. Nei brani più rockeggianti come There There una parte del parterre accenna un minimo di pogo (vietatissimo dalla band, speriamo non se ne siano accorti). Nella magnifica Daydreaming è ammaliato completamente e sembra ondeggiare insieme alle luci e alle grafiche che passano sui led, così come durante You and Whose Army?, quando il faccione di Thom seduto al pianoforte sembra occupare tutta l’Unipol Arena.
Sugli spalti lo spettacolo è ancora più sorprendente, segno di quanto dopo tutti questi anni di carriera e le sue metamorfosi, il gruppo riesca ancora a generare quell’entusiasmo primitivo. Weird Fishes / Arpeggi e The National Anthem così diverse e così simili nel risultato che ottengono, ovvero far alzare la gente seduta sugli spalti. Accanto alla mia seduta, davanti a una delle uscite del secondo anello, un gruppo folto di una quindicina di persone o poco più, balla, canta e sembra imitare le movenze sconclusionate di Thom. Per gran parte del concerto, complice le indicazioni della sicurezza, in quella zona è un continuo “Sit down Stand Up”. Nel lungo encore c’è stato spazio anche per Fake Plastic Tree – con qualche accendino oltre alle torce dei telefoni, Let Down e per la spesso sottovalutata Wolf at The Door.
I Radiohead avevano ragione
Le scalette di questo tour dei Radiohead sono mutevoli, molto più rispetto al passato, complice la mancanza di un album da promuovere. Tra i brani fissi, oltre a quelli di Hail to the Thief, c’è Everything in Its Right Place. Un pezzo che, dall’essere l’incipit della sorprendente e sconcertante svolta stilistica di Kid A, dopo venticinque anni è uno dei pezzi più conosciuti del gruppo. Tanto da essere stato utilizzato nel trailer di FIFA 25. Alla fine quindi avevano ragione loro, a dispetto di chi all’inizio aveva considerato quella mossa un suicidio commerciale.
Mai dubitare troppo dei Radiohead. Anche ieri sera ce l’hanno confermato con uno show che vorresti rivivere daccapo. Nel momento esatto in cui finisce ti rendi conto di essere stato altrove per due ore. Allora viene da dire Ave ai Radiohead con tutte le contraddizioni che si portano dietro e che li rendono ciò che sono. Non sarebbero gli stessi. Hail to the Radiohead.
