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I Radiohead tornano dal vivo: esserci o non esserci?

Da quando la band inglese ha annunciato a sorpresa il tour, incluse quattro date a Bologna, è sorto il dibattito. C’è chi spera di riuscire ad accaparrarsi un biglietto e chi spinge al boicottaggio per la loro mancata presa di posizione sulla situazione a Gaza. Da che parte stare?

  • Il5 Settembre 2025
I Radiohead tornano dal vivo: esserci o non esserci?

Oggi si sono aperte le iscrizioni per la “lotteria” per provare a comprare i biglietti per il tour dei Radiohead che dopo otto anni torneranno a esibirsi in Italia. Oramai accaparrarsi la possibilità di vedere un grande evento, un po’ come accaduto per Taylor Swift, prima ancora di essere una questione economica, è diventata una questione di fortuna. Essere estratti per poter tentare di acquistare e, in tutto questo, da italiani, vedersi quasi costretti a selezionare Bologna perché l’unico modo di aumentare le possibilità di “vincita” è avere la residenza vicina alla città scelta. Con buona pace di chi preferirebbe abbinare un weekend all’estero (che poi ormai è il segreto di pulcinella, all’estero, in Inghilterra specialmente, i live sono altra cosa sotto ogni aspetto).

Ancora prima di iniziare a sperare e pregare di ricevere il codice, c’è però un pensiero laterale che continua a insinuarsi in testa. Ha a che fare con una questione etica, con un senso di responsabilità con il quale oggi è inevitabile scontrarsi. Prendere posizione nei confronti dell’orrore che sta accadendo a Gaza è uno dei temi che sta dominando il dibattito pubblico da due anni. Sul fatto che gli artisti debbano esporsi o comunque sfruttare il palco e la loro posizione per alimentare e smuovere le coscienze è facile essere d’accordo.

All’estero, il Regno Unito e l’Irlanda davanti a tutti – se siete stati a un concerto dei Fontaines D.C. sapete a cosa si fa riferimento, per non citare l’attivismo dei KNEECAP – i musicisti si sono mossi con celerità. Dalla lettera dei cento sulla libertà di espressione fino al concerto organizzato da Brian Eno. In Italia, con le dovute eccezioni, il grosso della scena ha cominciato a parlare di Palestina più tardi. E in molti ancora non l’hanno fatto. Oppure, quando l’hanno fatto, hanno suscitato indignazione per una mancata presa di posizione netta.

Thom Yorke

Il caso di Jovanotti è un esempio molto simile a quello che ha coinvolto Bono Vox e non ultimo il frontman dei Radiohead Thom Yorke. Il suo lungo messaggio, pubblicato sui social lo scorso sei luglio, era stato criticato proprio per non aver centrato il punto della questione.

«Quel silenzio, il mio tentativo di mostrare rispetto per tutti coloro che stanno soffrendo e per coloro che sono morti, e di non banalizzarlo in poche parole, ha permesso ad altri gruppi opportunisti di usare l’intimidazione e la diffamazione per riempire i vuoti, e mi dispiace aver dato loro questa possibilità. Questo ha avuto un pesante impatto sulla mia salute mentale» aveva scritto il cantautore britannico, facendo riferimento all’episodio che aveva coinvolto lui e gli Smile (il trio composto anche dal chitarrista Jonny Greenwood e Tom Skinner) a Melbourne nell’ottobre del 2024. In quel frangente, Thom aveva abbandonato il palco dopo che una persona del pubblico aveva gridato delle frasi contro l’operato di Israele in Palestina.

Il resto del messaggio del cantante proseguiva con un’accusa a Netanyahu e si chiudeva con una serie di domande che hanno infastidito chi si aspettava una presa di posizione più netta: «Il ritornello incondizionato ‘Free Palestine’ che ci circonda non risponde alla semplice domanda: perché gli ostaggi non sono ancora stati tutti liberati? Per quale possibile motivo?».

Il motivo per cui tutti si aspettassero delle dichiarazioni nette da Yorke in realtà risale al 2017. Quando i Radiohead non accolsero l’appello di Artist For Palestine (che comprende tra gli altri Roger Waters, Thurston Moore e gli Young Fathers) di non esibirsi a Tel Aviv. Da lì la diatriba a colpi di dichiarazioni con il componente dei Pink Floyd. Intervistato nel podcast The Empire Files lo scorso anno, il bassista aveva raccontato dello scambio di e-mail. «Thom, le persone del BDS (Boycott, Divestment and Sanctions) hanno cercato di avere una conversazione con te per mesi! E anche io!».

E proprio il Boycott, Divestment and Sanctions, insieme alla Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel (PACBI), è tornato alla carica dopo l’annuncio del tour della band inglese. «Anche se il genocidio perpetrato da Israele contro i palestinesi a Gaza ha raggiunto la sua fase più recente, brutale e depravata, quella della fame indotta, i Radiohead continuano con il loro silenzio complice, mentre uno dei membri del gruppo continua a violare il nostro picchetto, esibendosi a breve distanza da un genocidio trasmesso in diretta streaming, insieme a un artista israeliano che intrattiene le forze israeliane responsabili del genocidio» si legge nel messaggio pubblicato sui social.

Jonny Greenwood

E qui arriviamo all’altra grande questione. L’artista nominato è ovviamente Jonny Greenwood che da anni collabora e suona dal vivo con l’artista israeliano Dudu Tassa. Un progetto musicale che coinvolge anche altri musicisti provenienti da Siria, Libano, Kuwait e Iraq, con il quale si è esibito a Tel Aviv pochi giorni dopo aver partecipato alla marcia di protesta per il rilascio degli ostaggi, e con cui si sarebbe dovuto esibire anche in Inghilterra. A maggio scorso, mentre scoppiava la polemica attorno ai KNEECAP e all’indagine dell’antiterrorismo inglese (con la conseguente cancellazione e riprogrammazione di diversi live del duo), venivano cancellati i due show che Greenwood e Tassa avrebbero dovuto tenere a Bristol e Londra.

Gli appuntamenti furono annullati a seguito delle proteste provenienti dalla PACBI che ha definito gli spettacoli un esempio di Artwashing genocide. Le numerose minacce ricevute hanno spinto le due venue a tagliare gli eventi dal calendario per problemi di sicurezza.

«Costringere i musicisti a non esibirsi e negare alle persone che vogliono ascoltarli l’opportunità di farlo è evidentemente un metodo di censura» aveva dichiarato il chitarrista. «Intimidire i locali a ritirare i nostri spettacoli non aiuterà a raggiungere la pace e la giustizia che tutti in Medio Oriente meritano. Questa cancellazione sarà salutata come una vittoria dagli attivisti che la sostengono. Ma noi non vediamo nulla da festeggiare e non troviamo che sia stato raggiunto alcun risultato positivo. Per alcuni di destra, stiamo suonando il tipo di musica “sbagliata”, troppo inclusiva, troppo consapevole della ricca e bella diversità della cultura mediorientale. Per alcuni a sinistra, la suoniamo solo per assolverci dai nostri peccati collettivi».

Si era espressa contro le critiche anche sua moglie, l’artista israeliana Sharona Katan, in una lettera: «Sono a favore della pace. Scrivendo questo, non sto cercando di giustificare nulla […] Non posso tollerare l’uccisione di civili in questa guerra. Il mio cuore va a tutte le vittime innocenti di questo lungo conflitto». Poi aveva proseguito: «Vedo solo una demonizzazione di tutto ciò che è israeliano ed ebraico. Una campagna disgustosa per costringere tutti gli ebrei al di fuori di Israele a proclamarsi anti-Israele se vogliono rimanere accettabili agli occhi del pubblico. È un test di purezza politica che mi impone di rinunciare a questo piccolo Paese, più piccolo del Galles, che ci ha salvato. Non vedo come questo approccio possa portare a un tentativo di armonia».

Esserci o non esserci?

Alla luce di quanto accaduto, visto e non letto, da fan della band ci si aspettava qualcosa di più. È una questione spinosa e la tentazione di fare una divisione tra bianco e nero è allettante, semplice, forse anche autoassolutoria. Poi c’è la musica, quella dei Radiohead, quella che ha rappresentato tanto negli anni Novanta e Duemila. Che ha parlato sempre controcorrente, contro i meccanismi perversi del sistema. Non solo quello musicale. Che Thom Yorke i suoi dubbi li ha sempre avuti su tutto (recuperatevi questa intervista di Deadeye).

Da una band della loro portata, con la loro influenza, è lecito pretendere coraggio. Ma quale è il confine della paura, quand’è che si trasforma in complicità? Me lo continuo a chiedere insieme alla fatidica domanda che domina i miei pensieri questi giorni. È giusto esserci? Probabilmente sì, se si ama la loro musica. È confortante provare a credere ancora nella complessità e nel dubbio che hanno sempre donato anima alla loro musica e che sembra caratterizzarli anche nelle faccende extra-musicali. È giusto boicottare? Non esiste una risposta giusta o sbagliata in questo caso. . La verità forse è che ognuno prenderà la decisione giusta in base ai propri sentimenti. A differenza della questione palestinese e del genocidio. In quel caso non è necessaria neppure una risposta, perché non esiste alcuna domanda.

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