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Robbie Williams, l’autoanalisi di una popstar

Nella docuserie Netflix il cantante britannico affronta il proprio passato rivedendo video e riprese inedite della sua carriera trentennale. Un lunghissimo weekend che ha il sapore di una seduta psicanalitica

Autore Samuele Valori
  • Il8 Novembre 2023
Robbie Williams, l’autoanalisi di una popstar

C’è una scena nella prima puntata della docuserie Netflix Robbie Williams che più di ogni altra rimane impressa, anche dopo aver terminato la visione di tutti gli episodi. Siamo tra il 1997 e il 1998 e lui, Robbie, è seduto in auto con lo sguardo allucinato. La voce fuoricampo della popstar che commenta e rivede quel footage a oltre venti anni di distanza dice, con un filo di amarezza, una frase emblematica: «Nobody graduates from childhood fame well balanced». Nessuno viene fuori in modo equilibrato dopo aver ottenuto certa fama da piccolo.

È questa la conclusione a cui giunge Robbie Williams nel corso del lungo weekend durante il quale il regista Joe Pearlman (Lewis Capaldi: How I’m Feeling Now) lo ha sottoposto alla visione dei materiali video – molti di essi inediti – registrati dietro le quinte nei suoi trent’anni di carriera. Una vera tortura, come ripete più volte l’artista di Stoke-On-Trent. Le riprese nella mega villa di Robbie Williams sono avvenute poco prima dell’inizio del XXV Tour.

Tutto troppo presto

La docuserie Netflix, più che un documentario sulla carriera del cantante britannico, è un documentario sulla percezione da parte di Robbie Williams della sua stessa vita. Per lunghi tratti si ha la stessa sensazione che si prova quando ai compleanni si osserva il festeggiato arrossire davanti alle sue foto scattate a tradimento oppure ai video imbarazzanti scelti con cura e dedizione dai suoi amici più stretti.

Robbie Williams si guarda spesso allo specchio nei vari spezzoni in cui viene ripreso mentre gironzola per casa in canottiera e slip, durante i momenti di pausa tra una sessione video e l’altra. Le visioni dei footage dal tablet sono delle vere e proprie sedute di autoanalisi che, anziché avvenire su un lettino, prendono corpo nella sua camera.

Si parte in medias res, ma dall’inizio della sua carriera. Un video di repertorio mostra un Robbie sedicenne durante le prove di un balletto in compagnia di Gary Barlow e degli altri membri dei Take That. Dislessia e discalculia lo hanno spinto ad abbandonare la scuola per intraprendere una carriera nello spettacolo. Un sogno che, col senno di poi, si realizza troppo presto. La fama e gli eccessi lo spingono fuori dalla boyband e dentro il tunnel della dipendenza.

Il bambino che non ha avuto modo di crescere torna spesso in tutte le quattro puntate. Come nel video del 1998 in cui Robbie Williams chiama l’allora fidanzata Nicole Appleton dalla Giamaica, dove sta registrando con Guy Chambers il secondo album I’ve Been Expecting You. «Sembro un bambino che racconta a sua madre le cose che vede per la prima volta» è il commento sarcastico del Robbie Williams di oggi. Il bambino ritorna anche molti anni dopo, quando nel 2006, inebriato dal successo, il cantante si ostina a pubblicare l’album Rudebox, poi rivelatosi un flop. «Era quel tipo di musica che ascoltavo e avrei voluto fare a 13 anni. Siccome piaceva a me, ero convinto dovesse per forza piacere al mio pubblico».

Robbie Williams Netflix docuserie

Robbie Williams, la docuserie Netflix è anche horror

Teddy, la primogenita di Robbie Williams, è una delle protagoniste della docuserie. Spesso interrompe le sessioni video del papà, talvolta facendo anche domande scomode. «Chi odiavi più di tutti?» domanda vedendo suo padre da giovane vantarsi del proprio successo dopo un’esibizione di Angels. «Gaz [Gary Barlow]. Mi dispiace averlo trattato così male in quel periodo, non se lo meritava» risponde Robbie.

Nei momenti più difficili però, quelli in cui il cantante non vorrebbe premere la barra spaziatrice del pc per far partire il video, come se stesse guardando un film horror, si assicura che Teddy esca dalla stanza. Non ha tutti i torti. Vederlo in evidente stato confusionale mentre registra l’album di debutto Life Thru a Lens lascia l’amaro in bocca. «In quel periodo bevevo una bottiglia di vodka al giorno prima delle prove» rivela il cantante.

L’altro momento “horror” della serie è quello raccontato nella terza puntata, a mani basse la più bella dell’intera docuserie. Siamo nel pieno del monumentale tour del 2006, all’apice del suo successo. La serie di concerti prevede oltre 70 date in tutta Europa, durante la quale la salute mentale e fisica del cantante vacilla a tal punto che per esibirsi Robbie convince i medici del tour a iniettargli degli steroidi. Una delle sequenze più impressionanti per come i protagonisti la fanno passare come una cosa normale.

Il rapporto tra Williams e l’Inghilterra in quel periodo non era proprio idilliaco e la leg finale del tour nel Regno Unito manda in crisi la popstar. Rivedere le scene dei due concerti di Leeds mentre la voce fuori campo di Robbie racconta dell’attacco di panico che ha avuto sul palco, e che si è protratto per tutta la durata del concerto, toglie il fiato. Soprattutto ripensando al Robbie nato per intrattenere, quello di Let Me Entertain You appeso a testa in giù davanti a oltre 100mila persone.

Una storia a lieto fine

Vedendo le immagini di repertorio della terza e della quarta puntata della docuserie, si stenta quasi a credere che la storia di Robbie Williams abbia avuto un lieto fine. Eppure, come dice lo stesso cantante, «There is a happy ending». La sua rinascita avviene grazie ad Ayda Field, conosciuta nel 2007, proprio nel momento più duro della sua vita: dipendente da sostanze, depresso e con una carriera in declino.

La sua risalita passa dal rehab e da due anni sabbatici passati in giro per il mondo con la futura moglie. Ayda è l’unico personaggio che viene intervistato, se non si tiene conto delle incursioni simpatiche di Teddy. La sua testimonianza aiuta a contestualizzare la situazione vissuta da Robbie Williams nel momento in cui ha scelto di tornare a fare musica nel 2009 con Reality Killed the Video Star.

La paura del palcoscenico la supererà facendo pace col proprio passato, ovvero con Gaz e i Take That. La reunion nel 2010 con la boyband libera definitivamente Robbie Williams da ogni blocco psicologico.  

Robbie Williams: cosa ci è piaciuto di più e cosa meno

Robbie Williams è una docuserie atipica, bisogna partire da questo presupposto. Non c’è un narratore esterno invisibile, ma è lo stesso personaggio principale a raccontarsi rivedendosi nelle riprese di cui è stato protagonista nel corso degli anni. Questo ha i suoi lati postivi e negativi.

L’aspetto che potrebbe rendere difficoltosa la visione è la poca dinamicità, soprattutto se non si è fan del personaggio. Il movimento è dato solo dai footage d’epoca: per il resto c’è solo Robbie Williams alle prese con un pc. Il fatto di non avere le voci degli altri protagonisti, suscita qualche rimpianto. Sembra un’occasione colta a metà, soprattutto se si pensa ai risultati raggiunti con la docuserie Beckham.

C’è però da tenere in mente l’idea di base del progetto. Robbie Williams, alla vigilia del tour celebrativo dei suoi 25 anni di carriera, posto davanti al proprio passato. In tutti i sensi: con lo schermo di un portatile, senza alcun tipo di filtro, con lui che vede ciò che vedrà lo spettatore. Un percorso di autoanalisi che vale comunque la pena compiere fino al termine della quarta puntata, fino a quel finale commovente che non siamo qui a spoilerarvi. Perché sì, «Thank God, there is a happy ending».

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