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Ultimo giro per Shane MacGowan: a drinker with (song)writing problems

Il cantautore irlandese, leader dei Pogues, è morto giovedì scorso dopo essere stato dimesso dalla terapia intensiva dell’ospedale di Dublino, dov’era ricoverato da quasi un mese

Autore Billboard IT
  • Il5 Dicembre 2023
Ultimo giro per Shane MacGowan: a drinker with (song)writing problems

Shane MacGowan, cantante e leader dei Pogues, è morto giovedì scorso. Purtroppo era malato da tempo e considerato quello che ha dovuto sopportare il suo fisico quand’era in vita, sembra già un miracolo che sia arrivato all’età di 65 anni. Stando ai racconti, spesso sfocianti nel mito, aveva cominciato a bere birra già all’età di 5 anni e assaggiato il suo primo whiskey di lì a poco. Molte delle sue canzoni raccontano proprio l’esperienza del bere e la condizione dell’ebbrezza, che per lui ormai sembrava essere una condizione quasi perenne: basta guardare uno qualsiasi dei vari documentari che gli hanno dedicato – dallo speciale della BBC del ‘97 fino al più recente Crock of Gold. A Few Rounds with Shane MacGowan diretto da Julien Temple – per farsene un’idea.

A scanso di equivoci, la prima canzone che aveva scritto per i Pogues s’intitolava Streams Of Whiskey ed era un duplice omaggio al superalcolico e al suo scrittore irlandese preferito: Brendan Behan. Anch’egli era particolarmente dedito all’alcol, al punto da autodefinirsi non uno scrittore con problemi di alcolismo, ma un bevitore con problemi di scrittura (a drinker with writing problems). Nel brano in questione lo scrittore, morto nel ’64, appare in sogno per esporre la sua semplice filosofia di vita – “vado dove soffia il vento, vado dove scorrono fiumi di whiskey” – prontamente presa e fatta sua anche da MacGowan:

Oh, le parole che ha pronunciato sembravano la più saggia delle filosofie

Non c’è mai nulla di guadagnato da una cosa bagnata chiamata lacrima

Quando il mondo è troppo buio e ho bisogno della luce dentro di me

Entro nel bar e bevo quindici pinte di birra.

È stata proprio questa filosofia a costringere la sua band a cacciarlo nel ’91, quando ormai non era più in grado di salire su un palco o di articolare i versi delle canzoni. Le sue uniche parole in risposta furono: «Perché ci avete messo tanto?». Il che la dice lunga anche sulla sua ironia e sul suo grado di consapevolezza. Ma prima dell’inevitabile declino, per una manciata di anni sufficienti a garantirgli l’eternità, Shane MacGowan è stato il più grande cantautore d’Irlanda e quindi, probabilmente, il più grande cantautore e basta. Uno che tra i suoi estimatori vanta gente del calibro di Bob Dylan, Nick Cave, Tom Waits e Bruce Springsteen.

Shane MacGowan, prima dei Pogues

Nato il giorno di Natale da genitori irlandesi emigrati in Inghilterra, Shane Patrick Lysaght MacGowan ha visto la luce nel 1957 in un piccolo villaggio del Kent, ma per i primi anni di vita ha passato tutte le estati e le vacanze nella fattoria di famiglia, nella contea irlandese di Tipperary. Lì, oltre all’alcol e al fumo delle sigarette, ha assorbito fin da piccolo la musica della tradizione irlandese e le storie ribelli della sua terra d’origine. Tutte le sere la casa si riempiva di feste. Musica, balli e canti ai quali il piccolo Shane era chiamato a partecipare attivamente.

La musica tradizionale della sua terra è diventata parte integrante del suo Dna ed è venuta fuori come un rigurgito di protesta negli anni della post-adolescenza, dopo il trasferimento della famiglia a Londra. Una città con cui Shane sviluppò un rapporto di amore e odio. Erano gli anni in cui gli attentati dell’IRA seminavano il terrore ed essere un ragazzino irlandese era sufficiente per essere odiato e bullizzato a scuola.

Appassionato di Dostoevskij e James Joyce, Shane a 13 vinse un premio nazionale indetto dal Daily Mirror. Era riuscito a entrare alla prestigiosa Westminster School, dalla quale però si fece cacciare per problemi di droga. Una nuova passione che si andava ad aggiungere alle precedenti. Inoltre, la madre ebbe un grave esaurimento nervoso, con forti ripercussioni sulla salute mentale dello stesso MacGowan. Shane venne ricoverato per sei mesi in un ospedale psichiatrico, circondato da persone sottoposte a elettroshock. Un incubo che l’ha perseguitato per moltissimo tempo.

Il punk

Erano anche agli anni del punk e il giovane Shane, folgorato sulla via della perdizione dai Sex Pistols, trovò finalmente la sua strada. Conosciuto col nome di “Shane O’Hooligan”, era una presenza fissa a tutti i concerti. Ne divenne persino un manifesto quando una sua foto con l’orecchio sanguinante a causa di un morso (ricevuto da Jane Crockford delle Mo-Dettes ) apparve sul settimanale musicale NME. Il titolo era “Cannibalismo al concerto dei Clash”.

Ben presto ebbe anche la sua prima band. I Nipple Erectors, ovvero gli “Arrizzatori di capezzoli”, furono quasi subito “obbligati” ad accorciare il loro nome in Nips. Stessa sorte capiterà al gruppo che fonderà qualche anno più tardi nel 1982: i Pogue Mahone. Una storpiatura del gaelico “póg mo thóin”, letteralmente “baciami il culo”, trasformatisi poi, per volere dalla casa discografica Stiff Records, in un meno comprensibile e più “vendibile” Pogues.

I Pogues e la diaspora irlandese

Il sentimento di amore/odio nei confronti della capitale inglese si sarebbe riversato in numerose canzoni, fatte di bagordi notturni e squarci di romantica bellezza bukowskiana. Dall’incipit di The Old Main Drag (“Quando arrivai a Londra per la prima volta, avevo solo 16 anni e cinque sterline in tasca”) a London You’re a Lady. Passando per Dark Streets of London, London Girl e Lullaby For London, fino alla cover di Dirty Old Town. Questa era stata scritta da Ewan MacColl, “l’unico cantante che Shane MacGowan sia mai andato a vedere in un folk club”.

Tutta la musica dei Pogues ha a che fare con l’esperienza della diaspora irlandese, con la malinconia dell’esilio e la nostalgia implicita nell’emigrazione. Non solo quella interna alla Gran Bretagna, ma anche quella delle traversate oceaniche a bordo delle navi dirette verso gli Stati Uniti. Spesso contrassegnate da una fine tragica, come quella cantata in Thousands Are Sailing o in Body of an American.

Per non parlare del Natale newyorkese raccontato attraverso gli occhi e i sogni infranti di due senzatetto irlandesi. Si tratta della canzone di Natale più bella e straziante mai scritta: A Fairytale of New York. Un brano senza tempo destinato a risuonare negli anni, i cui protagonisti sono ancora una volta inevitabilmente ubriachi.

Secondo Rick Moody che ha affrontato la questione del declino psicofisico dell’artista in un saggio musicale dedicato ai Pogues, le cose non sono slegate. Per lui l’alcolismo di Shane MacGowan era legato a doppio filo alla malinconia della diaspora irlandese. «C’è un’idea del bere che è fondamentale per un’identità irlandese ricreata in questo modo» dice Moody. Ovviamente la diaspora non è la causa dell’alcolismo, ma di sicuro non è d’aiuto, così come non lo sono stati i “Troubles” e il razzismo anti-irlandese

Shane MacGowan, tra il folk e il punk

L’unica cosa che MacGowan aveva sempre desiderato era creare una musica senza tempo, unendo il folk celtico con lo spirito del punk. Nei loro primi dischi i Pogues re-immaginano i brani della tradizione irlandese, innervandoli con un nuovo spirito. Si spingono così tanto nel continuum temporale della musica folk che è difficile stabilire dove finiscano le canzoni tradizionali e dove inizino i Pogues.

Bob Geldof nelle note di copertina della ristampa di Waiting for Herb ha parlato giustamente di «Vecchie canzoni amorevolmente riportate al loro atteggiamento incontaminato, correttamente reinterpretate al giorno d’oggi e canzoni originali senza tempo come se fossero state scritte in qualche angolo fumoso 300 anni fa o in una pensilina puzzolente dell’autobus a Londra la settimana scorsa».

Sempre per questa stessa ragione, le canzoni originali dei Pogues sono “piene” di altre canzoni. Nei testi di MacGowan ci sono canzoni ovunque. Canzoni dei campi di lavoro (Navigator), canzoni d’addio (Sally MacLennane) canzoni da marinaio (Turkish Song Of the Damned), canzoni d’amore (A Rainy Night in Soho) e d’amore per il bere. In A Pair of Brown Eyes, per esempio, sentiamo A Thing Called Love di Johnny Cash. Risuona dal jukebox per fare da sottofondo ai pensieri innamorati di un ragazzo col cuore spezzato, messi in parallelo con quelli di un vecchio veterano di guerra.

In A Fairytale Of New York c’è un vecchio ubriaco che canta Rare Old Mountain Dew, una cosiddetta “traditional drinking song”, mentre il coro della polizia intona Galway Bay che è un’altra canzone tradizionale irlandese. Nel brano The Sickbed of Cuchulainn ci sono due grandi esponenti della musica classica del ‘900 – John MacCormick e Richard Tauber – che fanno una serenata a un eroe della mitologia irlandese morente. Questo, colto da uno stato di delirio, sente degli uomini ubriachi cantare un verso tratto dal traditional The Twang Man.

Le canzoni e i fantasmi nelle canzoni di Shane MacGowan e dei Pogues

Ma le canzoni dei Pogues sono anche canzoni piene di fantasmi. Oltre a quello di Brendan Behan apparso in sogno, ci sono quelli dei cadaveri sepolti fra le dune di sabbia della costa. Il riferimento è alla grande carestia che colpì l’Irlanda tra il 1845 e il 1849. “4 milioni di morti” cantati in Down in the Ground Where the Dead Men Go. Poi ripresi più esplicitamente in un altro brano intitolato The Dunes, donato al grande Ronnie Drew dei Dubliners (altra storica band del folk irlandese).

Poi ci sono tutti i fantasmi appartenenti all’immaginario marittimo, richiamato anche dalla copertina del secondo album – Rum, Sodomy & the Lash (1985) – basata sul dipinto di Géricault, La zattera della Medusa. La rappresentazione di un episodio increscioso della marineria francese che nel 1816 abbandonò una scialuppa di salvataggio carica di “viaggiatori sacrificabili” al suo tragico destino. Le grida di questi fantasmi sono le grida di tutti i miserabili della terra che infestano diverse canzoni dei Pogues.

La zattera della Medusa, Théodore Géricault

Nell’omonimo brano di apertura del terzo album – If I Should Fall from Grace with God (1986) – il narratore chiede di essere seppellito in mare. “Dove nessun fantasma assassinato può perseguitarmi, se mi dondolo sulle onde, nessun cadavere può giacere su di me”.

Tra i tanti fantasmi che popolano le canzoni di MacGowan c’è anche quello cantato in duetto con Sinead O’ Connor. L’amica (purtroppo anche lei prematuramente scomparsa il 26 luglio di quest’anno) che lo fece persino arrestare nel tentativo disperato di aiutarlo a disintossicarsi. Il ritornello di Haunted dice ripetutamente: I want to be haunted by the ghost… of your preciuos love.

Leggendo i numerosi messaggi di cordoglio di questi giorni, compreso quello del presidente irlandese Michael D. Higgins, non ci sono dubbi sul fatto che alla fine quel fantasma l’abbia raggiunto. Non ci sono dubbi neppure sul fatto che la sua missione – «salvare la musica irlandese e renderla più popolare di quanto fosse mai stata» – l’avesse già compiuta da tempo.

Volevo fare musica pura che potesse appartenere a qualsiasi epoca, per rendere il tempo irrilevante, per far sembrare irrilevanti i decenni e le generazioni

Ci sei riuscito Shane, ora sei un fantasma anche tu. Vieni pure a infestarci quando vuoi. E porta qualcosa da bere.

Articolo di Andrea Pazienza

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