La selva oscura dei pensieri di St. Vincent è più colorata che mai
Il settimo album in studio di Anne Erin Clark, in uscita domani, è stato partorito nel buio e nella cupezza ma, traccia dopo traccia, rinasce sempre più luminoso
Tutti veniamo al mondo urlando. L’esistenza inizia con la presa di coscienza di quanto sia complicato respirare. Anne Erin Clark, negli ultimi tre anni, si è trovata più volte a dover riprendere fiato, complici alcune vicende personali. All Born Screaming è stato descritto dalla cantautrice come un una camminata solitaria nel proprio bosco mentale, un tragitto necessario che ha pochi colori: il bianco, il nero e i toni accesi del fuoco. Il nuovo album di St. Vincent nasce dalle perdite ed è il risultato del bisogno interiore di ritrovarsi. Per farlo, Anne si è isolata con la drum machine e ha scritto e riscritto un itinerario mentale senza una meta precisa, una lunga escursione emozionale, paradossalmente molto più autobiografica del precedente Daddy’s Home che prendeva spunto da una precisa vicenda personale.
All Born Screaming inizia in modo cupo con due tracce che fanno da preludio all’evoluzione sonora ed emozionale che avrà il disco nei minuti successivi. Hell is Near segna subito uno stacco netto con l’ultimo album di St. Vincent. Daddy’s Home era un omaggio agli anni Settanta, un lavoro che aveva spiazzato i fan ed esaltato invece la critica. Qui tutto ha un sapore diverso e molto più tragico, a partire dal nebbioso suono dei synth che accompagnano la cantante. Vengono in mente i Radiohead di Hail to the Thief e In Rainbows, soprattutto quando subentrano la chitarra arpeggiata e il pianoforte che conducono direttamente alla coda strumentale, legandosi al secondo brano del disco.
La natura mutevole della scrittura e del sound di St. Vincent sono sempre stati un segno distintivo dei suoi lavori, anche all’interno della stessa tracklist. In questo settimo disco le fasi sono perfettamente individuabili. Reckless, dopo la prima parte semi acustica, si sviluppa ed esplode con una sezione elettro rock alla Depeche Mode che anticipa i due singoli Broken Man e Flea, i due pezzi più heavy. L’aspetto barocco della produzione di Jack Antonoff è totalmente scomparso. L’approccio di Anne, per la prima volta nelle vesti di produttrice, è più stratificato. Un lavoro iniziato in casa e conclusosi agli Electric Lady Studios di New York.
I compagni di viaggio
Il nuovo album di St. Vincent, sebbene sia nato in una condizione di isolamento emotivo e spirituale, ha poi preso vita grazie alla collaborazione di numerosi artisti. Josh Freese, Stella Mozgawa, Rachel Eckroth, Mark Guiliana e David Ralicke sono tra i musicisti presenti in All Born Screaming, insieme ai due nomi che hanno catalizzato l’attenzione di tutti: Dave Grohl e Justin Meldal-Johnsen. Il frontman dei Foo Fighters ha suonato la batteria nei due brani, guarda caso, più rabbiosi e sbarazzini del disco. Broken Man è una canzone sfrontata nella quale Anne mette in mostra il proprio dolore su un ritmo seducente. St. Vincent si prende gioco del proprio malessere e, anziché nasconderlo, lo esibisce con fierezza e aria di sfida: «And what are you looking at? /Like you never seen a broken man».
La cantautrice non disperde la linfa vitale del groove che confluisce nella successiva Flea. Un brano che riesce a essere creepy e allo stesso tempo sinuoso e afrodisiaco. Il basso di Justin Meldal-Johnsen (Nine Inch Nails), vero coprotagonista che ha collaborato a tutte le dieci tracce di All Born Screaming, riesce a rendere eccitante il volo della mosca nella quale si identifica la cantautrice che ci regala uno dei versi più iconici del disco: «I’ll bring you China milk for your tea». Un passo degno di John Cooper Clarke. Anche in Flea, l’ultimo minuto e mezzo cambia leggermente le carte in tavola con l’ingresso dei synth che trasmettono una quasi spensieratezza inconsapevole, prima del ritorno tempestoso del ritornello finale.
Il metodo David Fincher
In un’intervista rilasciata durante la campagna promozionale de Il curioso caso di Benjamin Button Brad Pitt rivelò che i momenti più complicati su un set di David Fincher sono le scene in cui c’è di mezzo il cibo. È arcinota la puntigliosità del regista britannico che spinge i suoi attori a ripetere fino a più di trenta volte la stessa scena. Immaginate se in quello spezzone il vostro personaggio deve mangiare o bere. St. Vincent ha adottato lo stesso metodo fincheriano nella produzione del suo settimo album. Anne ha rielaborato più volte le produzioni, tagliando o allungando le tracce. Fino a quando non ha raggiunto il minutaggio palindromo di 41:14: un vero e proprio segno del destino.
Il lavoro più meticoloso la cantautrice l’ha fatto sulle voci, riregistrandole fino allo sfinimento. I risultati migliori si possono ascoltare nelle due canzoni più cinematografiche di All Born Screaming. Big Time Nothing porta improvvisamente dei colori più caldi e funky. St. Vincent si muove come una spia e cerca di entrarti in testa suon di coretti, basso e riff fuzzati di chitarra. «I look inside you» canta mentre subentrano gli ottoni e le percussioni afro.
L’oscurità ricompare appena nella ballad dark Violent Times, uno dei punti nevralgici dell’opera: da qui cambierà tutto. La melodia british, un tema alla James Bond in cui il sax incontra i Muse più ispirati di Uno e Showbiz, si affianca alle immagini del testo: «All of the wasted nights fighting mortality / When in the ashes of Pompeii lovers discovered in an embrace for all eternity». L’amore diventa eterno ed è suggellato dalla lava del Vesuvio. La morte non è intesa in maniera negativa, ma come un’opportunità chiarificatrice. In modo pressoché matematico offre una stima delle cose più o meno importanti.
A riveder le stelle
Nel cammino mentale compiuto da St. Vincent nel suo nuovo album arriva il momento in cui, tra le chiome degli alberi, si inizia a intravedere il cielo stellato. Segno che la direzione è quella giusta. Tra gli astri più luminosi Anne cita la compianta SOPHIE, alla quale dedica l’elettronica e tribale Sweetest Fruit. Prima però c’è uno dei piccoli capolavori del disco. The Power’s Out è un valzer dark che inizia di lunedì mattina in metropolitana. Il ritmo leggero di drum machine è immerso in un mare di fuzz di chitarra che proietta l’animo di chi ascolta in un’altra dimensione. Le suggestioni del testo, tra cowboy e altri personaggi da film, prendono vita, anche grazie al falsetto di St. Vincent. Prima che la chiusura space rock venga segnata dal lamento di chitarra elettrica.
Il primo ad ascoltare All Born Screaming è stato il regista Steve McQueen (12 anni schiavo) e chissà cosa avrà pensato delle influenze black e reggae di So Many Planets. Di colpo siamo tornati nel territorio di Daddy’s Home, ma in modo più colorato e ritmato. Un brano dominato da sax e cori che, nonostante a livello oggettivo, ammesso che in ambito artistico sia consentito abusare di tale termine, non ha nulla a che fare col mood dell’intero disco, senza alcun motivo funziona.
St. Vincent ha lavorato come Fincher, ma ha scritto la trama di un film che assomiglia molto a Inside Out. Il viaggio nella sua mente è iniziato con le emozioni più cupe e si conclude con la spensieratezza che raggiunge il suo massimo con la title track in collaborazione con Cate Le Bon. Il trittico finale, ricco di endorfina, si chiude con il basso di Justin Meldal-Johnsen che puntella le onde spensierate dei sintetizzatori e dei ricami di chitarra elettrica. Si balla e si canta coscienti che siamo tutti sulla stessa barca, tutti destinati alle urla con cui comincia e si conclude la nostra esistenza. E così finisce anche All Born Screaming, con tre minuti sintetici e un canto gregoriano laico che, a poco a poco, con il beat che si fa sempre più labirintico, prende il sopravvento fino al finale a cappella.
Ma il viaggio nel bosco non finisce mai, è palindromo come la sua durata e ognuno può ripescare il brano della propria emozione tra le dieci del disco. Sono proprio le emozioni, come le urla quando nasciamo, quelle che ci accomunano e ci rendono più simili.