Welcome to Italian techno, again: la storia di un genere che non smette di farci ballare
È arrivata ben presto nel nostro Paese, intorno agli anni ’80, piantando dei semi i cui frutti assaporiamo ancora oggi. Il racconto di Andrea Benedetti
La techno in Italia arriva nei negozi di importazione per DJ verso la seconda metà degli anni ‘80 assieme all’ondata house e acid house di Chicago. Erano anni in cui i costi di spedizione incidevano non poco sul costo finale di un disco. Comprarne uno europeo (soprattutto inglese) faceva la differenza rispetto all’acquisto dagli USA. Per questo il principio della licenza discografica era una modalità di diffusione della musica molto utilizzata. Invece di importare il disco dagli USA, si faceva un contratto di licenza con il produttore statunitense per ristamparlo nella propria nazione con la propria etichetta.
Fu così che un’etichetta come la London Records, label sussidiaria del colosso discografico Decca, iniziò a stampare dalla metà degli anni ’80 i primi brani house di Chicago. Analogamente, qualche anno dopo, l’inglese Network iniziò a diffondere la techno di Detroit, prima nel Regno Unito e poi nel resto d’Europa avviando di fatto una rivoluzione musicale senza precedenti.
Model 500 ovvero Juan Atkins, Reese ovvero Kevin Saunderson (a volte con il suo fidato partner Santonio Echols) e Rhythim Is Rhythim ovvero Derrick May. Poi ancora Eddie “Flashin” Fowkles, Anthony “Shake” Shakir, Undeground Resistance, Jeff Mills, Robert Hood, Suburban Knight e tantissimi altri. Tutti questi diventarono i paladini di un’attitudine di produrre musica completamente innovativa. Capace di mescolare elementi della cultura musicale occidentale e afroamericana in maniera semplice e avanguardistica allo stesso tempo.
Questa ondata di suoni e ritmi inarrestabile, strettamente connessa con lo sviluppo tecnologico esponenziale di quegli anni, confluì nella controcultura dei rave creando una simbiosi unica. Contrariamente a quanto si pensa, i rave non sono nati con la musica techno, ma con la house e soprattutto con l’acid house. La techno degli anni ’90, più militante e aggressiva di quella degli inizi, col tempo ha soppiantato gli altri stili musicali diventando la colonna sonora di milioni di giovani nel mondo uniti dal desiderio di divertimento sfrenato e dalla voglia di cambiamento.
I primi grandi protagonisti
L’Italia non poteva sfuggire a questa rivoluzione. I negozi specializzati per DJ erano presenti anche nel nostro paese grazie alla relazione profonda che abbiamo sempre avuto con il ballo e le discoteche. La grande competizione fra DJ ha portato alla ricerca di nuova musica e così, in maniera piuttosto casuale, i primi brani techno si affacciarono nei mega-club emiliani e non. Brani come Strings of Life o Big Fun si mescolavano alla prima piano house italica o magari alla dream music di cui si parlava una volta (e di cui per fortuna non si parla più) generando confusione e dubbi su cosa sia cosa (“è house o è techno?”).
A far capire meglio cosa sia effettivamente la techno, arrivò una serie di personaggi che in Italia cambiarono il punto di vista sul genere in maniera netta. Il contributo più significativo fu dei romani Lory D e Leo Anibaldi. Tutto partì grazie alla passione di Lory D e altri DJ romani per le gare del DMC, prima organizzazione europea di competizioni di cutting e scratch con sede a Londra. Verso la metà degli anni ’80 il DMC iniziò a mietere un successo dietro l’altro, sospinta anche dall’esplosione del fenomeno hip hop con artisti come Run DMC e Public Enemy. Londra diventò il vero ponte degli USA in Europa. Se volevi comprare le ultime novità, dovevi andare lì a pregare i commessi di Black Market o altri famosi DJ point londinesi.
La scena romana
Con queste motivazioni, alcuni ragazzi di Roma verso la seconda metà degli anni ’80 iniziarono a fare la spola con la capitale britannica. In quel periodo a Londra germogliò anche il fenomeno dei rave e le nuove sonorità che arrivavano dagli USA erano anche house e techno. Grazie a un aereo perso casualmente, questo piccolo gruppo di ragazzi con a capo Lory D e Andrea Prezioso finirono al Rage, serata del giovedì dell’Heaven, dove DJ Fabio e Grooverider mescolavano sapientemente acid house, hardcore (il primo vero nome della jungle) e techno. I ragazzi rimasero folgorati e – accanto a rare groove e dischi hip hop – iniziarono a interessarsi a quelle sonorità.
Era il 1988/89 e Roma iniziò così il suo percorso parallelo con il resto dell’Europa, anche grazie ai primi rave italiani che sconvolsero un’intera città. Negli stessi anni uscirono le prime produzioni discografiche techno italiane con la Sounds Never Seen di Lory D e la ACV con Leo Anibaldi. A queste si aggiunsero negli anni a venire una serie di produttori come Max Durante, i fratelli D’Arcangelo, Marco Micheli, Gabriele Rizzo, Marco Passarani e tantissimi altri.
Tutti portarono qualcosa di nuovo a questo nuovo approccio alla composizione quasi simbiotica con le macchine portata da Detroit, e la scena techno romana si distinse per originalità e trasversalità. Nessuno di loro ha affermato espressamente di fare techno per rispetto nei confronti della musica della Motor City, ma l’influenza era palpabile. In molti seguirono l’evoluzione della scena elettronica, che dal 1993 in poi diventò un enorme fiume con centinaia di affluenti che si inerpicavano verso nuove frontiere sonore intrecciandosi fra loro.
Il periodo d’oro
Gli anni ’90 sono stati gli anni techno per eccellenza. Il termine veniva usato come contenitore per accompagnare una società in bilico fra tensioni politiche e speranze tecnologiche. In quegli anni il virtuale, il world wide web e la comunicazione istantanea (su cellulare o online) cominciarono a eccitare e confondere allo stesso tempo l’umanità. La techno era diventata la colonna sonora di questa lunga rincorsa fra ricerca pura e sconvolgimento sensoriale. Era aiutata da una sempre maggiore presenza di un circuito di negozi e distribuzioni fuori dal sistema discografico classico.
La techno divenne così il genere musicale più potente e completamente indipendente della fine del ventesimo secolo. I produttori techno gestivano in toto tutto il processo creativo: dalla registrazione alla stampa del disco, dalla distribuzione al booking dei DJ della label.
Questo periodo segnò anche la svolta funzionale della techno. Da musica della scoperta e del non conosciuto, iniziò a dirigersi lentamente verso una modalità compositiva basata sulla circolarità ritmica necessaria a non interrompere il flusso del ballo. Gli artefici di questa sterzata stilistica furono soprattutto Jeff Mills e Robert Hood, che – dopo la loro esperienza con Undergound Resistance, l’etichetta più importante di Detroit negli anni ’90 – studiarono diverse modalità per divulgare le loro idee innovative.
La techno diventò così una formula e si diffuse a macchia d’olio. In Italia questa nuova direzione venne captata soprattutto a Napoli trovando in Marco Carola e Gaetano Parisio i suoi maggiori esponenti. Tribalismo analogico e sintesi armonica sono gli ingredienti con cui la techno di Napoli ha invaso l’Europa. D’aiuto sono stati anche altri produttori come Danilo Vigorito, Rino Cerrone, i QMen, i Random / Noize, Davide Squillace, Markantonio e molti altri.
Queste due città, ognuna con le proprie particolarità, hanno messo l’Italia sulla mappa mondiale della techno e generato modelli che hanno ispirato a loro volta altri produttori ed etichette.
Gli anni Zero
Nel corso degli anni Duemila il sound techno ha subito variazioni e banalizzazioni che lo hanno portato a diluirsi in generi più semplici come tech-house, minimal e hardgroove. Semplificando la complessità dei concetti techno inevitabilmente si è perso qualcosa. Molti DJ e produttori hanno abbracciato questi nuovi ibridi, ma alcuni della vecchia scuola romana e napoletana sono rimasti ancorati alle loro visioni originarie.
Roma spicca per tenacia e trasversalità con artisti come Lory D e Marco Passarani. Si sfornano brani senza sosta dimostrando che la techno, più che un genere, è un’attitudine compositiva. Una visione del mondo sonoro che se comprendi in fondo non puoi lasciare. La stessa visione che ha anche Gaetano Parisio, che si è trasferito a Barcellona senza intaccare minimamente le sue idee e il suo sound.
La techno oggi è sulla bocca di tutti come un tempo, ma è diventata materia complessa. La sua carica eversiva di un tempo si è fusa nell’isteria del divertimento post-pandemico palco-centrico in cui il DJ è sempre più rockstar e sempre meno “alchemist of sound”.
La scena di oggi
Musicalmente, per la maggior parte delle persone, la techno è sinonimo di beat aggressivi dai 140 BPM in su con contaminazioni industrial. Il meraviglioso mix interculturale degli inizi si è perso nell’estasi della velocità e del plus-godere. In mezzo a questo magma, però, alcuni produttori hanno trovato il modo di reiterare alcune idee valide e senza tempo.
Il primo è Giovanni Napoletano aka Giri, produttore di Napoli e proprietario della label Antiterra, dedita all’estensione del suono alla Jeff Mills verso territori più dark. Una sorta di tribalismo ancestrale che pesca nella tradizione popolare senza farlo notare. La sua originalità è stata notata da Mills stesso, che lo ha fatto uscire sulla sua Axis Records. Un altro produttore da segnalare è Donato Basile aka DJ Plant Texture. Viene da Bari, dove per anni ha avuto un negozio di dischi in cui ha affinato il suo amore trasversale per la musica. Il suo stile va dall’electro alla house più radicale di Chicago passando per la techno di Detroit e per alcune spruzzate breakbeat rave elettrizzanti. Proprio quest’ultime lo hanno portato a collaborare con la tedesca Ilian Tape dei fratelli Zenker, da sempre aperti a queste sonorità eclettiche.
Spostandoci al centro Italia, è particolarmente interessante il lavoro di Giuseppe Scaccia aka D-Leria. La sua label Delirio esplora la parte più mentale della techno. Collabora soprattutto con la scena dell’Est Europa (gli ucraini Stanislav Tolkachev e Danilenko o la polacca Milena Glowacka). A emergere sono i lati più intimi dell’elettronica, con echi ambient e dub su basi ritmiche ipnotiche. Ha collaborato anche con label come Avian e Semantica proponendo sfaccettature sempre nuove del suo sound.
Chiudiamo questa breve carrellata di nomi da tenere d’occhio andando a Bologna, dove opera da anni Andrea Salomoni aka May Salomoun e Abissy. Da sempre innamorato del suono più puro di Chicago e Detroit, ha fatto uscire la sua musica su tante label. Tra queste ci sono Irma, New Boy Shit Trax e New Interplanetary Melodies. Il suo sound è la summa dell’idea techno della scoperta sonora analogica che ha il suo massimo esempio nel suo ultimo album Extra Meta.
Questi quattro eccellenti produttori sono DJ capaci di esprimere anche con la musica di altri le loro idee. Rappresentando comunque solo la punta dell’iceberg di un mondo techno italiano mai esauritosi. Un mondo alla continua ricerca di nuove visioni da esprimere e che, proprio per la natura di questo genere musicale, non avrà mai fine.
Articolo di Andrea Benedetti