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The Weeknd è salito in paradiso, ora chiamatelo col suo nome

“Hurry Up Tomorrow” è la chiusura di un cerchio. Un viaggio tra redenzione e catarsi, un preludio a una nuova rinascita. Nell’album, immediato e complesso allo stesso tempo, che il prossimo 16 maggio divenerà anche un film con protagonisti Jenna Ortega e Barry Keoghan

Autore Samuele Valori
  • Il31 Gennaio 2025
The Weeknd è salito in paradiso, ora chiamatelo col suo nome

Il domani è già qui ed è impossibile non provare un pizzico di nostalgia per ciò che è stato. Anche per chi non ha mai approfondito a pieno ogni minimo dettaglio della carriera di Abel Tesfaye e del suo alter ego artistico The Weeknd. Partito da Toronto, è diventato uno Starboy e ha conquistato i vertici della musica mondiale. È riuscito a cambiare le regole del gioco. Tutti conoscono almeno una, anzi due, delle sue hit. R&B, elettronica e pop retro ma contemporaneo al punto da renderlo stabilmente tra i più ascoltati su Spotify. Hurry Up Tomorrow è la conclusione di un viaggio iniziato quasi quattordici anni fa e il capitolo finale della trilogia partita nel 2020 con After Hours.

Non è solo storytelling e non si tratta di auto citazionismo. Quando la titletrack sul finale si riaggancia alla prima canzone del suo album d’esordio House of Baloons (2011), in molti avranno sospirato e provato brividi per una composizione ad anello che si conclude. Eppure, è molto di più di questo. The Weeknd, con un percorso personale e artistico non privo di ostacoli, ha creato un immaginario sonoro riconoscibile e un personaggio i cui contorni travalicano realtà e fantasia. Perché non può essere nessun altro che Abel quello nella vasca da bagno nella strofa iniziale di Baptized in Fear.

Il risveglio

Dopo l’invecchiamento di Dawn FM, la prima immagine di Hurry Up Tomorrow era stata quella di un bambino. Segno di una rinascita, ma soprattutto di un risveglio fisico e spirituale dalla dipendenza, dalla fama e dal torpore di una vita a cento all’ora. Il brano che apre il disco non a caso si intitola Wake Me Up e, costruito sulla produzione degli oramai fidati Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never) e Mike Dean e in collaborazione con i Justice, introduce uno dei concept principali dell’album. Un tema nel grande macrotema in realtà: la ricerca di una salvezza dai propri demoni e il pensiero di un futuro sempre più prossimo nel quale le canzoni parleranno per lui. Dove lui è appunto The Weeknd, pseudonimo e concetto che oggi, 31 gennaio 2025, ascende al cielo e scompare per sempre.

Nessuna sorpresa, Abel l’aveva spiegato in numerose occasioni. Da ora in poi non pubblicherà più dischi con il nome d’arte che l’ha reso famoso. Come canta nel ritornello di Cry for Me, sarà il pubblico, o una metaforica “lei” a cantare le sue canzoni. Una mossa coraggiosa che rientra nella volontà di riacquistare una certa libertà sia artistica che personale. Ecco che allora è necessario citare la traccia centrale dell’opera, la più completa ed esaustiva: sì, la più bella. In Reflections Laughing The Weeknd gioca a fare il Michael Kiwanuka di Love & Hate. Il brano viene interrotto a metà da una telefonata. Dall’altro capo del telefono c’è una voce femminile, interpretata da Florence Welch (Florence + The Machine), che scuote il protagonista e prega per lui. La scossa si propaga sul beat nel quale si trova a pieno agio un inedito e più cupo del solito Travis Scott.

Il telefono che squilla anche nell’interludio che precede il pezzo (Opening Night), sembra salvare il protagonista che nella già citata Baptized in Fear era sull’orlo del precipizio. Questa canzone è letteralmente legata alla successiva Open Hearts e, la doppietta, genera uno dei momenti rivelatori dell’album. «Where do I start?» e «It’s never easy falling in love again» canta The Weeknd in quello che forse è uno dei pochissimi episodi catalogabili come radio friendly. Ci sono le mani di Max Martin e Oscar Holter (questo spiega tutto) dietro una canzone che lancia reference a Depeche Mode. Abel si chiede da dove poter ricominciare e il dolore amoroso, già protagonista nei due capitoli precedenti, non sembra più solo una metafora.

Gli ospiti

Una delle caratteristiche che stupisce ancora oggi chiunque ascolti la musica di The Weeknd è la stupefacente integrazione dei collaboratori con il suo mondo. Persino la lontanissima ANITTA, in São Paulo, riesce comunque a penetrare a poco a poco nell’universo in procinto di brillare per l’ultima volta. Sebbene rappresenti quasi un episodio a parte dell’album, nel complesso, il singolo non stona. Stesso discorso vale per l’altra anticipazione Timeless dove, oltre alla produzione di Pharrell Williams, il vero protagonista è Playboi Carti che accompagnerà Abel nel tour negli stadi del Nord America la prossima estate.

Tutt’altro che fuori dal flusso sono gli altri featuring di Hurry Up Tomorrow. Enjoy the Show conclude la prima parte del disco e mette in mostra un Future come raramente lo si ascolta. Il rapper statunitense canta e dona ancora più anima a un pezzo con cui The Weeknd fa definitivamente i conti con il presente, il passato e il futuro. La dipendenza che lo ha accompagnato nei primi anni di carriera, il successo e il desiderio di chiudere una fase e ricominciare: «I just wanna die when I’m at my fuckin’ peak».

Future torna anche nella catartica Given Up On Me dove la produzione di Metro Boomin e Mike Dean mostra il suo massimo splendore. Il campionamento di Wild is the Wind (brano coverizzato anche da David Bowie nel 1976) nella versione cantata da Nina Simone è pitchato e rallentato a tal punto da renderlo straniante e irriconoscibile. Persino gli attentissimi utenti di Genius l’hanno scambiato con la voce di John Mathis.

E poi c’è Lana Del Rey, la sorpresa dell’album. Il suo è un ruolo di coprotagonista in una storia d’amore post-apocalittica. La figura femminile è anche la musica e la discografia che Abel si lascia alle spalle con questo disco. Un percorso e una discografia di cui non può che andare fiero.

Fede

C’è una parola chiave che torna spesso in tutto il disco: legacy. Intesa come lascito ai posteri o semplicemente eredità. The Weeknd tira le somme, sfugge ai demoni del passato e ritrova la fede. Lo fa in diversi momenti della seconda metà del disco: nel “quasi” gospel di I Can’t Wait to Get There, nell’emotiva Give Me Mercy e anche nell’elettronica Big Sleep. Qui si compie uno degli intrecci più belli e intriganti, ovvero quello con il nostro Giorgio Moroder che lo accompagna anche nella testamentaria Without a Warning. Se al pubblico rimangono le canzoni, cosa c’è nel futuro di Abel senza The Weeknd? Una risposta la dà in Red Terror: suo figlio, la famiglia e la salute mentale e fisica. «Call me by the old, familiar name», chiamatemi col mio nome. Anche in questo caso piano personale ed artistico sembrano coincidere, ma non possiamo sapere cosa ci sarà dopo.

Come nei finali strappalacrime dei grandi classici, il protagonista si mette alla guida e scompare nell’orizzonte. È l’ultima immagine che abbiamo di The Weeknd in Drive. Hurry Up Tomorrow è infatti già paradiso. L’alter ego di Abel è già in compagnia dei grandi dell’arte e sembra una coincidenza che l’ultimo ritornello del disco citi David Lynch. In Heaven era inclusa nella colonna sonora di Eraserhead. Il debutto cinematografico del regista da poco scomparso si concludeva con un cortocircuito, una figura femminile salvifica e un rumore bianco. Al nero dello schermo qua corrisponde l’inizio di High For This. Il viaggio può ricominciare daccapo, in attesa di chiamarlo col suo nome.

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