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“Clancy” non ha vinto, ma ha salvato i Twenty One Pilots

Il settimo album del duo conclude l’arco narrativo iniziato con “Blurryface”. Un ritorno alle origini con una maggiore consapevolezza e una rinnovata ispirazione. Il finale della storia? Se avete visto “Mr Robot” lo adorerete

Autore Samuele Valori
  • Il24 Maggio 2024
“Clancy” non ha vinto, ma ha salvato i Twenty One Pilots

Foto di Ashley Osborn

Nell’incipit di Overcompensate c’è tutto l’universo sonoro del duo. Il pianoforte, la batteria nevrotica, i sintetizzatori, le secondi voci nebulose e un beat che spezza tutto il resto. I Twenty One Pilots presentano finalmente il protagonista della loro epopea, l’antieroe Clancy, chiamato a concludere la storia iniziata con l’album Blurryface (2015), dopo la pausa pop rock poco ispirata di Scaled & Icy. La band ha sempre definito i propri dischi come compensazioni dei precedenti, Trench, per esempio, era la risposta più ermetica ai ritornelli da classifica come Stressed Out. Il terzo capitolo della trilogia è invece un’”overcompensazione” di tutti i loro lavori precedenti, una summa stilistica che chiude un’era. Un disco che può essere apprezzato nell’immediato come una buona opera indie pop ma che, con i dovuti ascolti, svela sempre più strati. Fino a quel lieto fine che non c’è, l’ultimo tocco di magia. Bentornati in trincea.

«Welcome to Trench»

Il secondo singolo estratto da Clancy, uno dei brani migliori, è uno dei manifesti del nuovo album dei Twenty One Pilots. Next Semester è pop rock metamorfico che testimonia il ritorno, da Scaled & Icy, alle melodie indietronic di Vessel e Regional at Best con una consapevolezza diversa. La batteria di Josh è calibrata e segue i sentieri di Travis Barker, mentre il basso è di nuovo protagonista come un tempo, anche quando i power chord di chitarra sembrano dover prendere il sopravvento. Ci sono anche altri due ritorni che scaldano il cuore dei fan: il pianoforte e l’ukulele che rimane nella coda della canzone. Tyler racconta di un momento di smarrimento in mezzo alla strada e spera che le luci lo guidino verso casa.

«Can’t Change What You’ve Done / Start Fresh Next Semester» è un augurio, ma soprattutto il primo obiettivo che si pone Clancy, o Tyler. Mai come in questa fase fantasia e realtà si uniscono. Il rischio è essere risucchiati di nuovo nell’abisso dell’ansia, della depressione o dei sensi di colpa. Backslide riprende il ritmo e l’immaginario di Stressed Out (anche nel videoclip) e descrive il malessere come un ciclo. Non bisogna tornare al punto di partenza e farsi attirare dalla ruota che gira come i ratti. Tyler ama usare la metafora dell’acqua e dell’annegamento, come in Addicted with a Pen, e come in Fall Away che viene citata nel ritornello: «Cause I feel the pull». Il fantasma di Blurryface, il personaggio immaginario legato alla depressione e ai pensieri negativi, torna non solo nel testo, ma anche nello stile sonoro del brano.

Routines in The Night, già dal titolo, trasmette il senso di ripetizione inevitabile. L’altro grande simbolo usato dai Twenty One Pilots è quello della notte: tutte le cose avvengono al calare del sole. Le inedite sonorità trap abbracciate dalla band nella quinta traccia rendono il peregrinare notturno dei pensieri. La mente di Tyler è un lungo corridoio pieno di porte: alcune da aprire, altre da evitare. I troppi pensieri portano alla dissociazione e allora non resta che navigare la tempesta, sperare che passi e chiedere perdono del ritardo. Oppure farsi trascinare dal flusso dell’esistenza e da un incedere sempre più pop ed elettronico come quello di Navigating. Un’esplosione punk costruita su basso e sintetizzatori che, nella seconda parte del disco, risponde alla routine notturna.

Twenty One Pilots, Clancy è la storia di una notte in movimento

Il pianoforte nebbioso che spesso rimane isolato a fine traccia – come nella sopracitata Routines in the Night – si ricollega agli archi in Vignettes, una delle perle del disco. Gli accordi di tastiera e il basso che entra e accompagna il flow cuciono uno dei crossover di genere più riusciti, grazie anche alla produzione superba di Paul Meany e Tyler Joseph. Come molti album dei Twenty One Pilots, anche Clancy è in costante movimento. L’io narrante, che sia il cantante o la sua nemesi, è sempre in viaggio, verso casa, in fuga da Dema, dai vescovi e dai pensieri cupi. La foresta – altro elemento ricorrente – accoglie il protagonista e lo rallenta.

I fan della band sanno che non devono fidarsi: «Don’t trust a song that’s flawless» (non riporre fiducia in una canzone “perfetta”) come ribadisce uno dei versi più celebri della band in Lane Boy. Per questo spesso il duo ha giocato con i twist e con il contrasto tra lo stato d’animo trasmesso dalla musica e le parole del testo. Un brano pop raffinato, con una melodia imprevedibile e allo stesso tempo cantabile come Midwest Indigo, è in realtà il racconto di una notte gelida, di un ritardo e del dubbio che ci sia qualcuno ad aspettarti.

Una sensazione simile la si prova nell’unico esempio di storytelling in terza persona: At the Risk of Feeling Dumb. La penultima traccia del disco parla di suicidio con un ritmo simil reggae – riprendendo le sonorità di Message Man e Ride – ed è una richiesta accorata. Non abbassate la guardia, al costo di risultare stupidi e fastidiosi.

At the risk of feeling dumb, check in
It’s not worth the risk of losing a friend
Even if they say
“Just keep your plans, I hope that you never have to drop”

L’acustica Craving, brano centrale, sortisce il medesimo effetto: dolcezza e tristezza si mescolano in una sorta di interludio country che interrompe la narrazione a metà album. Il quarto singolo estratto da Clancy è il brano più autobiografico, dedicato a Jenna, moglie della voce dei Twenty One Pilots. Tyler Joseph si dimostra un mago delle melodie catchy: un ukulele, un ritornello malinconico e un’apparente incapacità di esprimere il proprio amore. Apparente sì, perché poi la musica dimostra il contrario.

Nuovo album, nuova vita, vecchie abitudini

I Twenty One Pilots sono sempre stati divisivi a livello di critica, per il lirismo, le metafore, il gusto pop e il prestito senza riscatto delle metriche rap: Clancy non è da meno. Lavish è la perla dell’album, il brano che può mettere d’accordo le due fazioni. Vita e arte si uniscono in un ritmo irresistibile e in un ritornello in falsetto condito ancora dagli archi, mai sfruttati dalla band come in questo disco.

La nuova vita di cui parla il testo è quella del successo. Quella dell’apparenza da cui fuggire che meccanismi dell’industria musicale spesso impongono. Tali situazioni spesso influenzano anche la musica, come sembra voler sottintendere la band in più punti del disco, quasi dando l’impressione di rinnegare la svolta colorata di Scaled & Icy. «Kinda wishin’ that I never did Saturday» canta Tyler in Backslide.

Ma ciò che l’io narrante si prometteva di evitare nella terza traccia del disco, avviene in Snap Back. Una canzone che cambia natura più volte nei quasi quattro minuti: Tyler si interroga, mette in dubbio il suo rapporto con Dio fino a rendersi conto di aver bruciato tutti i ponti. Dalla seconda metà del brano la prospettiva si ribalta insieme al sound. Il basso più pronunciato, così come la tastiera, e il refrain alludono alla speranza di un’elasticità dell’anima.

«Hello, Clancy»

Paladin Strait sembra il finale perfetto. Architettata alla perfezione, un’ultima traccia che taglia tutti i legami con il mondo reale, almeno a livello letterale. Clancy è sulla spiaggia di Dema, in cerca di Nicolas Bourbaki (anagramma di Blurryface). L’arrangiamento – a tratti orchestrale, a tratti elettronico – che accompagna l’arpeggio di ukulele e la batteria, crea i presupposti giusti per l’epicità. Il pezzo evolve e si chiude in forma totalmente acustica. Il protagonista è sulla vetta della montagna ed è pronto a prendersi la sua rivincita per poi fuggire per sempre attraverso il mare. Tutto si interrompe quando Blurryface fa la sua comparsa. La voce distorta recita i celebri versi di Fairly Local: «So few, so proud, so emotional. Hello, Clancy».

«Hello, Clancy». Si chiude così il disco e la saga che i Twenty One Pilots hanno iniziato nel 2015. Con un’espressione identica a quella con cui si concludeva una delle serie tv più geniali degli anni Dieci, Mr Robot: Hello, Eliot in quel caso era anche il titolo dell’episodio finale. Il mondo di finzione creato dalla mente di Tyler per preservare la propria salute mentale ricorda il meccanismo di difesa del protagonista interpretato da Rami Malek. Il finale del disco sembra arrivare alla medesima conclusione: Clancy è Blurryface, Blurryface è Clancy.

Può un mancato lieto fine, essere comunque un gran finale? Ovvio che sì. Il cerchio si chiude dove era iniziato nel 2015. Nessun “vissero felici e contenti” e forse è meglio così. Il vero finale della storia, quello morale, i Twenty One Pilots l’hanno nascosto nell’undicesima traccia dell’album, insieme malinconica e uplifting. Con il duo si ha quasi l’impressione che la sofferenza sia alla base dell’ispirazione. Quando scrive canzoni felici, sembra quasi perdere credibilità. E allora la soluzione migliore è proprio quel contrasto che si ripropone in Oldies Station, il crossover che, oltre che stilistico, diventa anche emotivo. È inutile tentare di opporsi al ciclo ripetitivo. Accettare i propri traumi e perseverare è l’unico sentiero percorribile. Anche se è notte, c’è una foresta da attraversare e la benzina nel serbatoio è quasi finita.

I Twenty One Pilots saranno in Italia nel 2025 per due concerti all’Unipol Arena di Bologna (17 aprile) e all’Unipol Forum di Milano (28 aprile).

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