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“Lament” degli Ultravox fu l’ultimo disco romantico degli anni ’80: la storia raccontata dalla band

Esce il 6 settembre una lussuosissima ristampa allargata di questo grande classico della musica “new romantic” degli anni ’80, il quarto album in studio del gruppo londinese da quando a guidarlo fu Midge Ure. La band racconta la genesi di questo piccolo capolavoro.

Autore Tommaso Toma
  • Il24 Agosto 2024
“Lament” degli Ultravox fu l’ultimo disco romantico degli anni ’80: la storia raccontata dalla band

Foto di Paul Cox

Era l’aprile del 1984 quando la band londinese, nel pieno del loro successo commerciale, decise che era venuto il momento di auto prodursi, facendo le primissime prove negli studi E-zee Hire nel nord di Londra, prima di trasferirsi nello studio di casa di recente costruzione di Midge nell’elegante quartiere di Chiswick, infine ai Mayfair Studios di John Hudson per le sovraincisioni e il missaggio finale. Gli Ultravox con Lament tentarono – felicemente – di provare a dare nuova forma a quell’ineguagliabile formula musicale che il gruppo di Midge Ure ottenne nel tempo, coniugando il synth-rock con un senso di decadenza mitteleuropea e di struggente romanticismo. Erano stati gli alfieri del movimento “new romantic”. Tra le band che rimasero affascinate da quello stile davvero europeo ricordiamo: OMD, China Crisis, Visage, i primi Spandau Ballet, perché no i Depeche Mode dei primi tre album e i Duran Duran fino all’album Notorius.

Una parte della discografia degli Ultravox rimasterizzata da Steven Wilson

Lament fu il loro settimo album in studio, il quarto però da quando a guidarlo era stato Midge Ure. Nei primi tre dischi – quelli dove ancora la band si chiamava Ultravox! – il leader era stato John Foxx che regalò alla band delle splendide intuizioni di punk decostruito sugli insegnamenti di Eno-Bowie. L’album risultò un bel successo commerciale e oggi, a distanza di 40 anni, ecco arrivare la curatissima rimasterizzazione curata da Steven Wilson. Il frontman dei Porcupine Tree da lustri si occupa di rimasterizzazioni, tra cui anche alcuni gioielli della musica inglese new wave degli anni ’80 (dai Tears for Fears ai mitici XTC). Wilson aveva già lavorato alle rimasterizzazioni di Vienna, Rage in Eden e Quartet per le rispettive riedizioni celebrative. 

Ultravox Lament
Midge Ure nel 1984, foto di Chris Cross

I dettagli della nuova ristampa di Lament degli Ultravox

La ristampa del disco, l’ultimo con il batterista Warren Cann fino all’album della reunion del 2012, sarà disponibile dal 6 settembre. Oltre all’album originario, troverete ben altri 45 brani. Tutti i singoli con le rispettive b-side, remix, rarità e un concerto inedito del 1984. La pubblicazione di Lament comprende anche un disco di remix estesi in stile anni ’80 delle canzoni degli Ultravox a cura di Wilson, Moby e altri.

Il set sarà disponibile anche in edizione deluxe in vinile da 5 LP e come master half-speed su doppio album. Il tutto sarà accompagnato da un libretto di 20 pagine contenente un nuovo saggio con interviste e foto inedite e una replica del programma del tour del 1984. Tutti i formati sono stati progettati replicando l’opera d’arte originale del designer Peter Saville con stampa in nero su cartoncino nero. Quella che leggerete qui sotto è un estratto in esclusiva per noi dell’intervista fatta alla band in occasione di questa ristampa e contenuta nell’elegante booklet.

L’intervista agli Ultravox

Qual era l’umore della band prima di realizzare Lament, dopo Quartet e il lungo Monument tour?
Midge Ure: Questo è stato uno strano periodo per gli Ultravox. Stavamo ancora sulla cresta dell’onda grazie al successo commerciale di Quartet, ma non volevamo fare lo stesso percorso per il nuovo disco. Avevamo visto George Martin come un produttore sperimentale. Era quello che speravamo. Lavorare con George è stato bello, ma la mia opinione generale su Quartet è che avevamo perso qualcosa della nostra identità, con tutta quella rifinitura su Quartet. Ci sono una serie di influenze strane e inedite in Lament, che non c’erano su Quartet.

Billy Currie: Il Monument tour è stato così lungo che abbiamo detto dopo: “È fatta”. Volevamo qualcosa di nuovo. Ma c’era un’atmosfera strana quando ci siamo riuniti per la prima volta alla fine dell’estate del 1983. Entrare nella nostra grande sala prove in Caledonian Road a nord di Londra è stato un po’ come: “Oh my god, eccoci di nuovo a incidere”, ma quando abbiamo lavorato per la prima volta in quello spazio, abbiamo pensato: “Wow, è incredibile”, perché era così spazioso. Una volta sistemata la nostra attrezzatura, avevo così tante tastiere attorno che era naturale che tutti si radunassero nella mia “zona”. Ci chiedevamo cosa avremmo dovuto fare. Mi piace Lament, ma è un album che ha richiesto molte prove.

Come iniziò a prendere forma il sound dell’album?
Warren Cann: Scrivevamo solo quando eravamo tutti nella stessa stanza, il che è raro in una band. Raramente qualcuno arrivava con un’idea, ma era sempre un tema o uno schetch. Avevamo in mano degli snippet delle varie canzoni e poi ci lavoravamo per un’oretta. Se non funzionava, dicevamo: “No, lascialo per un altro giorno”. Avevamo comunque sempre un sacco di idee, quindi se ci bloccavamo, potevamo tirare fuori qualcosa e a volte il risultato era: “Oh, questo va bene”. A volte scrivere insieme era noioso. Diciamo che se Billy aveva qualcosa che stava cercando di afferrare, come un ritmo, io lo suonavo per ore e ore, cercando di mettere insieme i pezzi, facendo calcoli su dove poteva andare. Mentre il tempo scorreva, tutti gli altri dovevano ascoltarti… la cosa andava avanti per ore. Ma poi qualcuno si sarebbe inventato qualcosa per poi esclamare frasi del tipo: “Ehi, che figata!”

BC: Come band abbiamo sempre avuto un gran senso della competizione ma c’era all’epoca una leggera mancanza di fiducia, perché sentivamo che non avremmo sempre potuto vincere le sfide. Pensai: “Questo è il nostro quarto album con Midge, il settimo come band. Siamo una band affermata con un sound affermato”. Non volevo che iniziassimo a rievocare Ha!-Ha!-Ha! (il secondo magnifico album della band nel 1977, ndt), ma sentivo che avremmo dovuto pensare al motivo per cui il nostro sound si era affermato. Ritenni che il motivo risiedeva nel fatto di saperti coinvolgere totalmente, merito anche della nostra rodata esperienza dal vivo. Pensai di fare una canzone che potesse richiamare il disco Vienna, qualcosa di vintage. Avevamo bisogno di un punto di riferimento.

MU: Eravamo diventati molto digitali con George Martin e non mi piacevano molti dei suoni di synth di Quartet. L’attrezzatura di base che avevamo su Vienna produceva un sound molto distinto, molto Ultravox. Ci eravamo allontanati da quello, ma in Lament si può sentire crescere uno stile ibrido. Ci sono molte più chitarre nell’album, mescolate a quel nostro modo di creare atmosfere cinematografiche con i nostri synth. Lament non è stato concepito come un disco commerciale, perché stavamo cercando piuttosto di riconquistare qualcosa che ci stava sfuggendo.

Quanto velocemente è nato l’album da quel momento?
MU: Abbiamo sempre fatto i nostri album “a blocchi”. Non abbiamo mai lavorato pensando: “Ci sono due mesi, facciamo tutto”. Quando ci servivano i testi, Chris e io abbiamo affittato una grande casa mobile americana e siamo andati nel nord della Scozia. Volevo allontanarmi dai telefoni e da tutti gli altri rumori esterni, per limare i testi. Chris era il mio gregario, quindi siamo andati in un’avventura intorno alle isole di Harris e Lewis (al largo della costa occidentale della Scozia, ndt), in questo enorme veicolo che era decisamente troppo grande per le strade dell’isola. Mentre guidavamo, ho avuto delle forti sensazioni di déjà vu. Forse era semplicemente malinconia scozzese. Questo mi ha portato a scrivere Man Of Two Worlds. Stavo riscoprendo me stesso, tornando a imparare a suonare la musica tradizionale scozzese a scuola. Ha dato ad alcune canzoni un’atmosfera inquietante…

BC: Mi piaceva l’atmosfera che Midge stava creando con il suo “tocco scozzese”, aggiungendo alcuni accordi interessanti. C’erano delle buone idee in ballo e ho scritto alcune canzoni a casa. Sebbene non avessi costruito il mio studio fino a poco prima del Live Aid nel 1985, avevo già mantenuto il mio soggiorno molto scarno. Tenevo un pianoforte a mezza coda art déco sul pavimento a quadri bianchi e neri. Sembra un po’ da snob, ma erano gli anni ’80. Mi piaceva il minimalismo e andavo lì per liberare la testa.

Circa due anni prima, Conny Plank mi aveva consigliato un album di Michael Rother, che finalmente iniziai ad ascoltare. Era ipnotico e mi dava una sensazione molto positiva e la musica era semplice nella sua struttura compositiva. Inventai un pezzo di musica di otto battute che, invece di essere tranquillo e ipnotico come Rother, è alla fine diventato un inno. Capii che era il mio genere, mi piaceva scrivere musica da inno e diventò Dancing With Tears In My Eyes. Quando portai quella canzone in sala prove, ci furono parecchie lampadine accese sopra le teste delle persone. Midge per primo.

Avevate capito da subito che Dancing With Tears In My Eyes sarebbe stata una grande canzone?
MU: Sì! La bella melodia al pianoforte di Billy si è subito prestata a qualcosa di epico.

BC: Ricordo di aver guardato Midge, che all’improvviso s’inventò la strofa. Era così semplice. Da E a A è un ottimo movimento di chitarra e il ritornello è in fa diesis. La strofa si adattava perfettamente al ritornello e pensai: “Siamo sulla strada giusta”. Il contributo di Midge era così semplice e spazioso, proprio ciò di cui la canzone aveva bisogno.

MU: Per quanto riguarda i testi, puoi ringraziare Selina Scott. Chris e io eravamo nel backstage del  programma TV BBC Breakfast Time. C’era una pila di vecchi 78 giri lì. In cima alla pila c’era una canzone intitolata Dancing With Tears In My Eyes di un tizio di una band (Johnny Marvin, pubblicata nel 1930). Ho pensato: “Wow, che titolo geniale!”.

Le idee che avevo tratto da quel titolo si adattavano perfettamente alla musica su cui stavamo lavorando. Come brano strumentale, era la colonna sonora di un film per il quale non avevamo ancora le immagini, e all’improvviso eccole lì. L’idea di “Perché qualcuno balla con le lacrime agli occhi?” si adattava anche al libro di Nevil Shute, On The Beach, che parla di come le persone scelgono di trascorrere i loro giorni rimanenti, sapendo che incombe un fallout nucleare. Tutte queste idee si fusero insieme per formare una canzone pop molto triste.

Quanto fu importante la decisione di produrre Lament da soli?
WC: L’idea di autoprodurci risale sin dagli inizi del nostro percorso come band, da subito volevamo sapere come funzionavano le cose in studio, ma devi camminare tanto prima di poter correre. Devi imparare tutte queste cose. Lavorando con Steve Lillywhite, ci siamo alternati a far funzionare il registratore e abbiamo imparato tutti i tipi di metodi di studio. Siamo stati così fortunati ad avere quell’esperienza, senza nessuno del management o di un’etichetta lì a farci incazzare.

Dopo due album con Steve, pensavamo di aver imparato tutto quello che potevamo da lui e che avevamo bisogno di qualcuno di nuovo da cui succhiare nuove conoscenze, quindi abbiamo preso Conny Plank. Dopo due album con Conny, la questione era chi sarebbe stata la persona giusta per influenzarci. Volevamo Chris Thomas, ma il feedback che ricevemmo fu negativo. Quindi, George Martin. Dopo George, non ci è venuto in mente nessun altro, quindi abbiamo deciso che avremmo preferito farlo da soli, non lavorare con qualcuno da cui non avremmo imparato.

MU: Avevo appena costruito il mio studio. Aveva senso utilizzare ciò che avevamo per creare la nostra musica. La maggior parte della scrittura di Lament è stata fatta nella nostra sala prove, ma molta della sua creatività è arrivata in studio, perché ora avevamo la possibilità di farlo da soli. Ciò ha portato Lament a diventare uno dei miei album preferiti.

Cosa vi ispirava musicalmente in quel periodo?
BC: I campionamenti stavano davvero prendendo piede. Avevamo acquistato un PPG Wave all’inizio di Quartet, ma era così poco tecnologico che non ne ricavammo molto. Con Lament, le cose si erano evolute. Ero un fan di Prince e siamo rimasti molto colpiti dal modo in cui aveva campionato il suono di una pallina da ping-pong. C’era molta di quella competitività.

MU: Stava uscendo molta musica dance dal suono europeo, come Blue Monday. White China è stato il nostro modo di riferirci a quello stile. Mi piaceva la giustapposizione di batteria elettronica e impulsi di synth che la attraversavano con la sua chitarra twangy di Hank Marvin. È una combinazione così strana, ma funziona. Dal punto di vista dei testi, White China si riferisce al ritorno di Hong Kong alla Cina, giocando sulla Cina in modo così delicato. “When white turns to red” parlava del ritorno di Hong Kong a un governo comunista, avvolto in un ambiente pop-dance appetibile.

Ultima curiosità, come trovate all’ascolto questo album, 40 anni dopo?
WC: Ascoltarlo per la prima volta dopo tanto tempo per questa edizione è stato illuminante. Alcune parti sono migliori di come le ricordavo, altre più o meno uguali e, a dire il vero, qua e là non sono belle come le ricordavo. Le canzoni tatuate nella mia mente sono quelle che suonavamo dal vivo. Ho sempre amato suonare Lament. Riascoltando oggi queste canzoni sono ok, ma ho avuto momenti in cui ho pensato: “Avremmo dovuto fare così, girare a destra invece che a sinistra”.

BC: Non è il mio album preferito, ed è strano che fossi così distaccato dal realizzarlo. Ma sono orgoglioso che abbiamo fatto un disco che ha dimostrato che potevamo farlo da soli e creare un sacco di belle canzoni mentre lo facevamo.

MU: Per un album con solo otto canzoni, ci sono alcuni momenti Ultravox eccezionali. Dancing With Tears In My Eyes, Lament, White China, One Small Day, Man Of Two Worlds: reggono tutte e funzionano ancora oggi. L’album funziona, non solo per come è stato registrato, ma anche per la sua scrittura. Funziona orchestralmente e c’è molta più chitarra in Lament rispetto agli album precedenti, ma suona comunque come gli Ultravox!

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