Finché ci sarà Vasco a ricordarcelo, ce la faremo davvero tutti
Ieri sera allo Stadio Olimpico di Torino di fronte a 36mila persone è andata in scena la prima data del nuovo tour negli del rocker di Zocca (con 600mila biglietti staccati): uno spettacolo che è la celebrazione della vita, quella graffiata e sgangherata e per questo intensa

Vasco Rossi a Torino
Prima di ieri sera allo Stadio di Torino, non avevo mai visto un concerto di Vasco Rossi. Ne avevo sentito parlare dai racconti dei miei familiari, da quelli leggendari dei fan più fedeli. Avevo visto video – centinaia -, foto, telegiornali che riportavano immagini di stadi – tanti, tantissimi – stra-colmi fino all’ultimo seggiolino dell’ultimo anello. Percepivo e sapevo che sui live del rocker di Zocca ci fosse una mitologia consolidata, ma farne parte per la prima volta è stato quasi un rito di passaggio che segna un prima e un dopo. “Sono emozionato io per te”, mi risponde un collega quando dico che quello di Torino è il mio primo concerto di Vasco. “Anche se non sei fan ti cambierà la percezione”. E così, in effetti, è stato.
Inutile dire quanto lo abbia fatto rispetto a tutto ciò di cui la discografia italiana ci ingozza in modo bulimico ogni giorno (di quanti degli artisti contemporanei tra 50 anni ci ricorderemo come di Vasco? In quanti anche dopo mezzo secolo di carriera potranno riempire – per davvero, senza scorciatoie – stadi tutte le estati, staccando 600mila biglietti – come quelli venduti per questo tour 2025 che è un naturale proseguimento di quello dello scorso anno – anche senza pubblicare dischi? Due domande a cui rispondere forse ci spaventa un po’, perché vorrebbe dire fare i conti con la fine – si spera più lontana possibile – dell’era delle icone, quelle vere). Molto più interessante riguardo all’umanità tutta che si incontra una volta varcati i cancelli, da Vasco stesso al suo popolo che non ha eguali. Non avevo mai visto un legame così viscerale, indissolubile, devoto.
Vasco Rossi a Torino: «Oggi mi riapproprio di “Vita Spericolata”»
E non quella venerazione immotivata e romanzata che si ha per una star lontana e irraggiungibile. Ma per un uomo che ha vissuto sempre intensamente e in equilibrio sopra la follia e che per questo ha saputo davvero dare una colonna sonora immortale a quelle esistenze un po’ sgangherate, complicate, sofferte, maleducate, che portano addosso ancora i graffi di una vita troppo bastarda, e che come quella Sally che loro e Vasco cantano con un grido liberatorio per dirsi che forse, in fondo, è stato tutto giusto così, cercano solo un senso al proprio vagare nel mondo e una carezza per non sentire l’amarezza. Per non essere soli a rincorrere i propri guai e piangere sotto la pioggia.
È quella la vita che Vasco Rossi celebra iniziando simbolicamente il suo concerto a Torino con quella canzone travisata, snaturata e equivocata. Tranne – ovviamente – da coloro a cui era veramente dedicata, perché le anime rotte che si riconoscono non possono non capirsi e ricongiungere i pezzi. “Quest’anno il concerto parte con la canzone che più di tutte è un inno alla vita e che è stata sempre fraintesa”, racconta in backstage poco prima dello show. “Oggi – in un momento storico in cui sembra che le cose più importante siano solo il profitto, il potere e la violenza – me ne voglio riappropriare. Vita spericolata non è un’elogio dell’autodistruzione, ma della vita vissuta veramente, con coraggio, con amore e anche con i rischi. Uno se li prende mica perché vuol morire, ma perché vuol vivere. Vuol vivere intensamente”.
Un dio gigante e imperfetto, e per questo umano
Viene dunque da commuoversi quando, sulle prime note inaspettate (nelle retrovie si narra che i fedelissimi arrivino alla messa laica del Blasco schivando gli spoiler sulla scaletta) che accompagnano l’ingresso del Komandante sul palco di Torino quando il sole sta tramontando, nel pubblico iniziano a scendere le prime lacrime. Viene da chiedersi quali storie e ricordi ci siano dietro a quei pianti, dietro a quell’urlo collettivo ma allo stesso tempo così personale, disperatissimo e liberatorio, quando Vasco canta “ognuno col suo viaggio, ognuno diverso, e ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi”.
Ognuno senza una meta, se non puntualmente, ogni anno, ogni estate, il palco di quel dio gigante e imperfetto – e per questo umano, troppo umano – che continua e continuerà ad attraversare e fare da ponte tra le generazioni. Duro e corrosivo quando dedica Gli spari sopra a “tutti i farabutti che governano questo mondo” proiettando la scritta “Fuck War” mentre nel prato sventola una bandiera della Palestina o quando – a volto coperto da buon anarchico – in Mi si escludeva critica ferocemente chi divide invece di unire.
Vasco Rossi a Torino lancia un monito in questi tempi nefasti
Spregiudicato e passionale quando alla fine di Rewind definisce “belle, libere e selvagge” le ragazze e le donne che quel “fammi godere” del ritornello vogliono viverlo fino all’ultimo secondo senza inibizioni e essendo uniche e insindacabili padrone dei loro corpi, romantico a modo suo quando intona Una canzone per te e Va bene, va bene così.
E ancora quello un po’ spaccato e segnato, caduto dal Paradiso all’Inferno come Lucifero che ricorda a tutti di Vivere, ma che a volte è okay anche solo sopravvivere come si può, pensando che domani sarà sempre meglio, fischiettando in faccia ai guai. Un monito in questi tempi nefasti, come quello con cui Vasco termina Vita Spericolata. “Ce la farete tutti”, dice al suo popolo, e la forza di quelle parole è così tanta che non puoi non convincerti che, nonostante tutto – anche se sei morto dentro, combattendo anche quando tutto è contro -, forse è vero, andrà proprio così. Finché c’è Vasco a ricordarcelo, ce la faremo. Tutti.