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Wolfgang Van Halen, i Mammoth WVH, il ricordo del padre: ritratto di un rocker di razza

È appena uscito il secondo album della sua avventura solista, “Mammoth II”. Abbiamo incontrato a Milano il versatilissimo cantante-polistrumentista-songwriter

Autore Federico Durante
  • Il7 Agosto 2023
Wolfgang Van Halen, i Mammoth WVH, il ricordo del padre: ritratto di un rocker di razza

Wolfgang Van Halen (foto di Travis Shinn)

Ci sono figli d’arte e figli d’arte. Portare il cognome di uno dei più grandi chitarristi elettrici della storia non dev’essere certo un peso indifferente, per tanti motivi. Ma Wolfgang Van Halen, che da qualche anno porta avanti con successo il progetto Mammoth WVH, ci riesce in modo indubbiamente brillante, sfoggiando un talento fuori dal comune.

Già, perché Wolfgang fa tutto (e bene): scrive i pezzi, canta, suona tutti gli strumenti. Un approccio “leonardesco” alla creazione musicale che lo accomuna a grandi come Stevie Wonder e Prince.

Lui però mantiene sempre un amabile understatement, come vi accorgerete leggendo questa intervista. Il nuovo album Mammoth II, uscito per BMG venerdì 4 agosto, mette in mostra il meglio delle sue doti e, senza girarci troppo intorno, è uno dei migliori dischi hard rock usciti quest’anno.

Ascolta Mammoth II

Wolfgang Van Halen - Mammoth II - intervista nuovo album - 3
Wolfgang Van Halen (fonte: ufficio stampa)

L’intervista a Wolfgang Van Halen

Sei nel bel mezzo di un imponente tour fra Europa e Stati Uniti. Fra gli altri, hai già aperto concerti di uno dei gruppi metal più grandi di sempre, i Metallica. Quando hai avuto l’occasione di conoscerli?

Avevo già conosciuto James Hetfield nel 2015 e Lars Ulrich l’anno scorso. Entrambi sono stati molto carini con me. Quando mi hanno chiesto di aprire i loro concerti non potevo crederci: per me è un onore essere lì con loro. Prima del concerto ad Amsterdam tutti loro sono venuti in camerino a salutare la band. C’era un’energia molto positiva, ci sentivamo i benvenuti. Dal mondo in cui lavorano si capisce che sono molto vicini, che sono un po’ una famiglia: del resto sono in giro da così tanto tempo.

Parlami del processo di registrazione e di produzione del nuovo album.

Per quest’album ero molto più sicuro di me stesso. All’epoca del primo album mi interrogavo ancora su ciò che volessi esattamente dal progetto. Non ero neanche sicuro di voler cantare. Fu il mio produttore a convincermi che avrei potuto farcela. Dopo due anni di tour ho finalmente capito cos’è il progetto Mammoth e mi sento più a mio agio nelle vesti di cantante e chitarrista. Per questo in quest’album ho sfidato me stesso un po’ di più. E credo che si senta.

La tua abilità come polistrumentista è cosa nota. Il nuovo album non fa eccezione, visto che suoni e canti tutto. In che modo la tua mente ti consente di pensare in più direzioni contemporaneamente, per così dire?

Non è poi così complicato. In genere quando scrivi una canzone parti da un accompagnamento di chitarra, che sia il riff principale o comunque una parte che ti cattura l’attenzione. Da lì poi faccio una demo al computer, mettendo più cose insieme, per farmi un’idea più precisa del pezzo. Quando vado in studio, infine, aggiungo la batteria, il basso, le parti vocali. Parte tutto dalla musica.

Quando butti giù la parte principale di chitarra hai già in mente quelle che saranno tutte le altre parti strumentali?

Dipende. Io vengo da un background musicale molto ritmico: ho iniziato studiando batteria a 9 anni. Il ritmo influenza molto la direzione che prende la mia scrittura. Da quel punto di vista presto senz’altro molta attenzione agli incastri ritmici fra batteria, basso e chitarra. Più che pensare a tutto contemporaneamente, diciamo che ogni parte dà forma alle altre. Come mettere insieme i pezzi di un puzzle.

In un’intervista hai detto: “Sono ‘lead singer’ ormai da due anni. Ti ci abitui man mano che lo fai”. Come ti sentivi allora le prime volte?

All’inizio mi sentivo davvero un pesce fuor d’acqua. Al nostro primo concerto, in Kansas, ero nervoso da morire. Sai, l’ansia della prima volta che fai qualcosa… Suonare nei Van Halen era perfetto: dovevo solo suonare il basso e divertirmi, la gente era lì per vedere David Lee Roth. Ma con i Mammoth è un’altra storia: sono il tizio che deve intrattenere la gente. Da introverso quale sono, è senza dubbio un compito impegnativo. Ma, come in tutte le cose, più lo fai, più migliori.

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Wolfgang Van Halen (fonte: ufficio stampa)

Vieni da una famiglia molto musicale, ma questo non basta a spiegare la tua abilità con così tante competenze musicali diverse, dalla tecnica sui vari strumenti al songwriting. Come sei arrivato a padroneggiarle?

Mi piace pensare di non padroneggiarle ancora. Imparo ogni giorno. Alcuni direbbero: “Ce l’hai nel sangue”. Ma non è che posso tagliarmi un braccio e aspettarmi che il sangue suoni la chitarra al posto mio… (ride, ndr) È tutta questione di tempo: più pratica fai, più migliori. Tutto qui.

Sei completamente autodidatta?

Sì. L’unico insegnamento che ho ricevuto da qualcun altro fu quando mio papà mi insegnò a tenere il ritmo di Highway to Hell degli AC/DC picchiettando su un tavolo. Poi mi comprò una batteria per il mio compleanno. Mi rendo conto che sia difficile da credere, visto chi sono mio padre e mio zio. Ma sono felice che mi abbiano lasciato trovare la mia personale espressione musicale.

Parlando della canzone Right? hai detto: “È aggressiva e pesante, ma non sacrifica la melodia in nessun modo”. Penso che questa frase riassuma bene il tuo approccio al songwriting in generale, no?

Esatto. Nel suo piccolo quella canzone riassume la mia concezione di songwriting e il significato dei Mammoth: potenti ritmiche con potenti melodie. E nessuno dei due elementi sovrasta l’altro, stanno insieme armonicamente.

Anche se non la definirei necessariamente “metal”, nella tua musica si sente chiaramente l’influenza di quel mondo. Quali sono i tuoi ascolti in fatto di metal?

Realizzando quest’album ho certamente dato spazio alle mie ispirazioni metal: Meshuggah, Tool, Karnivool, Porcupine Tree (Gavin Harrison è uno dei miei batteristi preferiti di sempre), Periphery (altro buon esempio di band “heavy” che non sacrifica le melodie). E negli ultimi dieci anni c’è stata una fantastica nuova ondata di chitarristi eccezionali. Prendi per esempio gli Animals As Leaders, gli Intervals, Plini.

Mi piace il modo in cui lavori sugli assoli di chitarra. Si capisce che hai un notevole controllo del manico, ma non è mai uno shredding fine a se stesso. Qual è la tua “filosofia” che segui?

Scrivo gli assoli così come scrivo le canzoni. Come avrebbe detto mio padre, un buon assolo lo puoi canticchiare. La sua melodia ti si fissa in testa. Lo shredding ci sta ma deve arrivare al momento giusto. Un buon esempio di ciò è l’assolo di Take a Bow: era la prima volta che ne registravo uno così lungo. È uno po’ come scrivere una canzone nella canzone.

L’anno scorso hai omaggiato Taylor Hawkins al concerto tributo dei Foo Fighters. Immagino che lo conoscessi personalmente.

Sì, l’avevo incontrato a un concerto dei Van Halen. Parlammo per un’oretta e mi fece davvero una bella impressione. Ero davvero triste quando è morto. Dave Grohl mi ha invitato a suonare al concerto ed è stato per me un vero onore.

Da come ne parli, è chiaro che non vedi i tuoi musicisti come dei semplici turnisti ma come una vera e propria band. Che futuro vedi per il progetto Mammoth?

Suonare il più possibile, per il maggior tempo possibile.

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