Internazionalizzazione, Enzo Mazza (FIMI): «Costruire una strategia unitaria»
Oggi gli artisti italiani hanno di fronte una platea potenzialmente globale. Per il CEO di Fimi il problema è quello di unificare gli sforzi del music export in un’unica grande operazione
Una volta quello dell’export delle produzioni musicali italiane all’estero era appannaggio di pochi grandi nomi consolidati. La distribuzione, legata al trasporto fisico di CD, era complicata. Le collaborazioni con artisti stranieri, pochissime. Ma la digitalizzazione della musica ha rimesso tutto in gioco. Grazie allo streaming anche gli artisti italiani hanno di fronte una platea potenzialmente globale, non più interessata al solo mondo anglosassone (vedi alle voci reggaeton e K-pop, per citare i casi più eclatanti degli ultimi anni). Anche i contatti fra artisti sono oggi pressoché orizzontali: non costituisce più un’eccezione un featuring fra un rapper italiano e uno americano. Ecco dunque il fenomeno dell’internazionalizzazione.
Il nuovo problema, semmai, è quello di unificare le varie operazioni di internazionalizzazione già esistenti in un’unica strategia di promozione. Una missione difficile ma non impossibile. Ne è convinto Enzo Mazza, CEO di Fimi (Federazione Industria Musicale Italiana), che ci spiega perché oggi l’humus per l’internazionalizzazione è ideale.
L’ultima edizione del South by Southwest ha visto una buona partecipazione di artisti italiani. Perché è un segnale positivo?
È stata una delle edizioni migliori dal punto di vista della partecipazione italiana. Ma il tema vero è quello delle opportunità che a livello globale si stanno aprendo per tutti i repertori globali. Le operazioni di internazionalizzazione di questi anni hanno avuto sempre il limite del raggiungere il grande pubblico. Il rapporto nei confronti della musica italiana è sempre quello per una musica “tradizionale”, per il bel canto. L’Italia è connotata con un certo tipo di repertorio.
Oggi, anche grazie allo streaming e al fatto che il mercato non ha più confini, si stanno aprendo opportunità, come dimostrano altri paesi che in questo momento hanno successi globali. Prendiamo per esempio tutto il fenomeno del reggaeton. Non è più solo legato ad alcuni paesi latino-americani ma avviene a seconda degli artisti che riescono a sfondare.
O anche il fenomeno K-pop, per esempio.
Esatto. Queste grandi opportunità di internazionalizzazione nascono anche perché è cambiato completamente il modello con cui i consumatori a livello globale si relazionano con la musica. Per loro la hit globale non ha una “fonte” geografica. Può essere potenzialmente di qualsiasi paese, l’importante è che incontri quelle caratteristiche che oggi soprattutto i giovanissimi sono in grado di percepire. Sulla carta è un momento ideale per la musica italiana anche per superare gli stereotipi che l’hanno sempre accompagnata. Il mercato italiano è molto cambiato, anche grazie al fatto che ci sono nuovi generi musicali, artisti molto giovani. La musica italiana che va all’estero non è più solo quella del bel canto – di Bocelli, di Ramazzotti – ma ci sono opportunità che forse mai come in questo momento potrebbero aprire anche ad altri generi musicali e giovani italiani che stanno crescendo. Si tratta di sistematizzare queste opportunità.
Secondo te quindi ci sono le premesse per un’espansione anche a livello prettamente geografico? Tradizionalmente i mercati di riferimento per l’esportazione della musica italiana sono stati da un lato il sud America e dall’altro l’est Europa.
Le opportunità di internazionalizzazione ci sono, perché sono legate alle piattaforme. Se tu vai sulla piattaforma di Tencent in Cina, tutto il repertorio italiano è presente. Il problema oggi è come fare in modo che qualcosa di questo repertorio esploda sul mercato cinese. Su quello poi si può fare un lavoro di coordinamento. Parlo anche delle istituzioni: ad oggi danno dei fondi ma come dei rivoli indipendenti uno dall’altro. C’è l’operazione Fimi con ICE (Istituto per il Commercio Estero), c’è la Siae con l’Italia Music Export, c’è poi il rivolo dei fondi della copia privata che danno piccoli finanziamenti per operazioni all’estero…
Tutto questo crea una serie di canali distinti che andrebbero riuniti in un’unica grande operazione che potrebbe diventare un elemento che analizza gli sviluppi che ci sono a livello globale. È una fase in cui va anche costruita una strategia dell’Italia sul fronte della musica. Molte etichette, anche indipendenti, vedono potenzialità ma non sono bene in grado di interfacciarsi con le piattaforme.
Dunque il problema non è strettamente un fatto di comunicazione dei prodotti italiani all’estero ma di creazione di una strategia organica dei vari attori dell’industria. Questo organismo chi potrebbe comporlo?
Potrebbe essere un’evoluzione di quello che è l’Italia Music Export, con il coinvolgimento delle istituzioni. Penso al Mibac e all’ICE, che oggi contribuisce alle iniziative di Hit Week e all’importante operazione di South by Southwest. Si potrebbe partire da questi elementi che oggi operano distintamente per creare un nuovo alveo, un nuovo sistema dell’internazionalizzazione della musica italiana. Poi c’è la parte creativa, ma quella è nelle mani delle aziende. Una volta l’esportazione all’estero era molto complessa, mentre oggi la musica italiana è presente su tutte le piattaforme.
Operazioni come quella di South by Southwest sono importanti per far conoscere l’innovazione nel nostro settore, dove tutti pensano che l’Italia sia categorizzata con un solo genere musicale. Quello che è stato per anni un segnale importante per la musica italiana, nell’era dello streaming è diventato un po’ un problema. Quel genere musicale non va forte sulle piattaforme di streaming. Tutti i giovani artisti pensano che le opportunità delle piattaforme siano anche opportunità per scalare a livello globale.
L’italiano è una delle lingue più studiate al mondo. Quello del fattore linguistico è un po’ il dito dietro al quale nascondersi. L’italiano anche come lingua avrebbe forse grandi potenzialità dal punto di vista dell’export – in questo caso a livello musicale.
Dopo l’exploit del pop coreano, quello della lingua è un falso problema. Questa contaminazione globale non potrà che produrre grandi opportunità, indipendenti dalla lingua. Ormai c’è un mix di elementi: streaming, rap, contaminazioni con artisti globali molto più disponibili rispetto alle star del passato a fare operazioni con artisti locali… Una volta una collaborazione fra Springsteen e Ligabue era impensabile, oggi una cooperazione fra un produttore internazionale e un rapper italiano è normale. Sono più vicini perché ci sono le nuove tecnologie che gli danno queste capacità, anche perché parlano più o meno la stessa lingua dal punto di vista musicale.