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Lo stato di salute della musica italiana e l’esempio di Linecheck

Una riflessione sullo stato di salute della musica condiviso con noi da Dino Lupelli, fondatore di Linecheck, music conference di riferimento in Italia

Autore Billboard IT
  • Il9 Novembre 2019
Lo stato di salute della musica italiana e l’esempio di Linecheck

Alla sua quinta edizione, Linecheck è la music conference di riferimento in Italia per addetti ai lavori del settore con numerosi panel, networking session e masterclass abbinati ad uno “showcase festival” nel quale, al di là di alcuni guest ed headliners, si esibiscono per lo più artisti alla prima volta in Italia, non ancora noti sul territorio.

Guest country di quest’anno, il CanadaNon a caso: l’altra America, baluardo del multiculturalismo, proiettata nel futuro, con il suo 22% di cittadini nati fuori confine, record tra i paesi G7. Un Paese che anche in ambito musicale ha sempre rifiutato il ruolo di gregario. Affrancandosi dalla scena statunitense e britannica e stimolando una diversità culturale che ha attraversato almeno due generazioni di musicisti. Da Neil Young agli Arcade Fire, da Leonard Cohen a Caribou fino a The Weeknd.

Un appuntamento per intenditori ma anche per appassionati ed esploratori: cinque giorni di riflessione sullo stato della music industry della quale parliamo oggi proprio con il general director di Linecheck, Dino Lupelli.

L’intervento di Dino Lupelli

In che stato di salute è la musica italiana? In cinque anni, da quando siamo partiti con il progetto Linecheck, non abbiamo fatto altro che cercare di rispondere a questa domanda. Finalmente cominciamo a vederci chiaro, da diversi punti di vista.

Per l’aspetto industriale è tutto relativamente semplice, servono dati oggettivi e sia in termini di fatturati che di posti di lavoro il confronto tra vecchi e nuovi modelli di business è impietoso: l’industria musicale cresce come non faceva da anni e le proiezioni sono più che ottimistiche almeno sino al 2030.

C’è musica per tutti i gusti

Per la dimensione culturale i numeri non ci aiutano: ci sono di mezzo personalissimi giudizi estetici, con l’inevitabile (e noioso) confronto generazionale. La verità sotto gli occhi di chiunque è che mai come in questo momento storico c’è musica per tutti i gusti, sia nella sua dimensione discografica che in quella live. Mai si sono viste così tante nuove produzioni, mai così sono stati prodotti così tanti live.

L’ecosistema musicale italiano si sta adeguando ai grandi cambiamenti che hanno segnato l’inizio del millennio. È finalmente possibile essere ottimisti, ma tanto è ancora il lavoro da fare. Nella recording industry i nuovi modelli di distribuzione e le piattaforme di fruizione stanno facendo ritornare profittevoli gli investimenti. Ma è ancora difficile riconoscere il giusto compenso a chi fa della musica il suo mestiere.

Giustizia o economia?

È una questione di giustizia prima ancora che di economia: da un lato i soggetti di fatto monopolisti nella distribuzione in rete dovrebbero riconoscere una parte più significativa dei loro guadagni a chi produce i contenuti che ci attraggono ogni giorno su internet, dall’altro gli utenti dovrebbero essere consapevoli che la fruizione gratuita – e a volte illegale – di musica riduce i margini di guadagno e quindi di investimento proprio sulle nuove produzioni così richieste dai fan.

Nella live industry si fanno strada i format ed i festival che vanno gradualmente a sostituire i vecchi modelli di tour e singole serate con un interesse crescente da parte di pubblico, sponsor ed istituzioni. Si punta sull’esperienza complessiva più che su di un singolo artista, producendo veri e propri “eventi” capaci di attrarre un pubblico sempre più ampio. Ma il cambiamento di modelli introduce nuove sfide. La regolamentazione del secondary ticketing, la sostenibilità ambientale e le misure di sicurezza per la salvaguardia dell’incolumità del pubblico non possono pesare esclusivamente sui bilanci dei promoter, cui va riconosciuto il ruolo di verie propri agenti di sviluppo economico e culturale.

Le sfide del nostro Paese

Bene così quindi? In realtà nel nostro Paese c’è da affrontare con maggiore decisione la sfida dell’innovazione. Nei mercati più evoluti si è prepotentemente affiancato ai due settori tradizionali – discografia e live – un comparto music-tech che vede affermarsi aziende di diverse dimensioni. Queste sfruttano la digitalizzazione e le nuove tecnologie per offrire nuovi servizi. Spesso le dimensioni di queste aziende superano in termini di fatturato quelle aziende che storicamente hanno guidato il mercato. Ma in Italia ce ne sono poche, anzi pochissime.

La sfida all’internazionalizzazione è appena iniziata e un sistema di connessioni istituzionali e professionali comincia a dare i suoi frutti, ma le storie di successo sono ancora poche e quel che è peggio spesso sono gli stessi operatori a non credere nel potenziale del nostro prodotto nazionale.

E poi la dimensione sociale: non ci può essere vero sviluppo senza la valorizzazione della diversità culturale e l’abbattimento delle barriere di genere. I mercati si aprono a sempre nuovi linguaggi e creano le condizioni per una piena valorizzazione dei talenti – artistici o manageriali – senza distinzione di sorta.

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