“Tutto è palco”: intervista ai designer dello studio milanese Giò Forma
A scorrere l’elenco degli allestimenti che hanno progettato si rimane sbalorditi per quantità e varietà, ma il grande amore dello studio milanese Giò Forma resta il design dei palchi dei grandi concerti: con loro proviamo a immaginare il live show del futuro
A scorrere l’elenco degli allestimenti che hanno progettato si rimane sbalorditi per quantità e varietà: l’Albero della Vita di Expo 2015 e X Factor, la “Supermostra” per i 60 anni di Esselunga e le opere della Scala, più progetti in Messico, Kazakistan, Brasile, Bahrein. Ma il grande amore dello studio milanese Giò Forma resta il design dei palchi dei grandi concerti: porta la loro firma il palcoscenico del concerto dei record, Modena Park, e per quest’anno stanno già lavorando ai tour negli stadi di Jovanotti, Negramaro, Cremonini e dello stesso Vasco.
Loro sono Cristiana Picco, milanese, Claudio Santucci, toscano, e Florian Boje, tedesco. A Milano hanno trovato la base naturale da cui dialogare con il mondo. L’Italia, dicono, dovrebbe smettere di sentirsi provinciale perché ha tutte le competenze per esportare modelli e idee. E allora con loro proviamo a immaginare il live show del futuro.
Da 20 anni fate questo lavoro e nei primi tempi vi siete occupati solo di musica: era un progetto in cui credevate molto.
[Claudio] Non è che ci siamo trovati lì per caso: facciamo il lavoro che abbiamo sempre sognato di fare. Mi ricordo mio padre che diceva: “Ma cosa fai?”. Mio fratello faceva i capannoni industriali e mi diceva di andare da lui perché c’era già il lavoro pronto. Ma io volevo fare i palchi. “Ma quella è roba impossibile!”.
[Florian] “Da drogati!”
[Cristiana] L’obiettivo è sempre stato la musica come parte centrale della nostra ricerca. Poi la musica si è completata dalla cosa più piccola, come può essere una vetrina, ai grandi concerti. Tutto questo attraverso le tecnologie e tanto studio: quello che si fa adesso non è solo un disegno in CAD ma è un bagaglio di esperienze e di evoluzioni.
[Claudio] La musica è stata il “phishing” che ci ha portato in questo ambiente. In realtà la cosa che poi si è sviluppata è l’aver portato la mentalità musicale – e rock – di concepire i palchi in tanti altri ambiti.
Infatti voi siete del tutto trasversali a tantissimi contesti diversi.
[CS] Per noi tutto è un palco, come dice spesso Florian.
[CP] Adesso i grandi possono permettersi di chiamare artisti che gli fanno video, film, corti e così via. Questa cosa ha permesso anche a noi di crescere, studiare e dare un risultato non più da provinciali – come si faceva una volta in Italia – ma con un valore aggiunto all’insieme del progetto. Questo è il concetto che ci ha aiutato nel tempo a dare sempre con la stessa importanza e lo stesso bagaglio di storytelling, dall’artista più piccolo a quello più grande, un messaggio chiaro e riconoscibile.
A proposito di storytelling, come Giò Forma che tipo di storia volete raccontare con ciascun progetto? C’è una sorta di narrativa che impostate ogni volta?
[F] C’è una super narrativa. Partiamo sempre da zero e sempre dal musicista. A meno che non si tratti di Vasco: in quel caso il nostro plot è la sua aura, la sua personalità. Lui non stabilisce il racconto di un concerto ma gli cresce intorno perché lui è fatto così.
[CP] Ha uno stylebook anche lui. Ogni artista ha un viaggio che cerchi di attraversare e di creare su misura. Questo è ciò che si cerca di fare ed è molto difficile perché in questo momento tutti usano tutto, quindi è un doppio lavoro per noi trovare il “fatto a mano” e il “disegnato su misura” per l’artista.
[F] Nessuno vuole essere uguale all’altro, come nella musica stessa. Il fatto è questo: dobbiamo sempre essere originali ma nessuno vuole essere il primo a provare una cosa, un po’ una contraddizione. Siamo dei funamboli.
Riguardo a un concerto da record come Modena Park di Vasco, qual è stato il grado di complessità nella realizzazione di un progetto di quel tipo?
[F] Bisogna essere incoscienti…
[CS] La difficoltà maggiore era che se in uno spazio così grande avessimo messo un palco “normale” la maggior parte del pubblico si sarebbe sentita fuori dall’evento. Per noi era importante trovare la scala giusta dell’impatto del palco per far sentire anche gli spettatori più lontani un po’ più dentro all’evento.
[F] Uno non deve vedere Vasco piccolino: deve vedere 100 metri di Vasco. Il palco deve essere la sua estensione, un “totalone” che racconta Vasco, che è Vasco. È anche un palco che non può non funzionare. Quindi la progettazione di questi marchingegni così enormi che lottano contro la forza del vento è stata piuttosto complessa.
[CP] C’era un vento…
[F] Noi lo facciamo da un po’ e siamo anche abituati, però è come mettere su un palazzo in quindici giorni che deve funzionare. È tutto ultra-programmato e questo dopo è abbastanza invisibile.
E le vostre personalità come interagiscono fra di loro? Un po’ come nella musica, il risultato finale è unico però c’è dietro un gruppo di persone diverse. Ci sono volte in cui avete idee opposte su un progetto?
[CP] Tante volte non c’è neanche bisogno di parlare. Ci sono delle cose talmente chiare, di expertise, che ci permettono di dire due o tre punti focali che sappiamo che andranno bene come visione per un progetto.
[CS] Diciamo che ognuno suona il suo strumento.
Con gli artisti c’è qualche tipo di interazione? Ricevete richieste direttamente da loro?
[CS] Dipende. C’è chi non ne fa per niente e chi ne fa tantissime. Generalmente sono benvenute. Prima c’era molto la tendenza ad usare le ultime tecnologie uscite, adesso cerchiamo di fare uno storytelling. È come disegnare un vestito su misura. In questo caso il vestito è il palco e tutto lo show. L’interazione con l’artista è importante: deve essere un lavoro di continuo scambio di idee in modo che quello che esce sia veramente la sua estensione.
Esiste a volte anche un rapporto diretto, personale, con gli artisti?
[CS] Alcuni sono più chiusi, altri più aperti, ma generalmente sì.
[F] Io credo che il live di adesso, con cui si fa spettacolo, gli artisti ancora lo stiano imparando. Ancora stanno capendo che è la nuova risorsa e che ci devono investire tanto tempo. Secondo noi ci sono ancora enormi mondi inesplorati. Il prezzo dei biglietti al momento è per un’esperienza e quell’esperienza la possiamo far crescere. Una volta c’erano i “concept tour”: magari in futuro ci saranno singoli eventi che avranno concetti singoli molto potenti insieme a mostre, realtà aumentata e così via. Credo che l’esperienza live sarà sempre più importante ed elaborata.
[CP] I brand ci chiedono eventi come se fossero concerti senza il cantante per avere lo stesso effetto e stupire il pubblico. Per noi sta aumentando il lavoro che usavamo una volta solo per la musica anche per realizzare installazioni, mostre, sfilate, eventi che devono essere sempre più coinvolgenti.
[CS] Con molti artisti si riesce anche a intervenire in una certa misura nella definizione della scaletta. Fanno sempre più attenzione a quello che accade nel loro show, quindi al di là di dare il giusto saliscendi nel concerto, magari ci sono delle cose spettacolari che si adattano bene a una canzone che a livello visivo va collocata nella giusta posizione nel concerto.
Quindi voi vi studiate bene le loro canzoni prima di progettare.
[F] Sì, è una drammaturgia.
[CS] A livello non solo musicale ma anche di arrangiamento. Se per esempio ci serve un intro o una parte strumentale per accompagnare un certo effetto, molti sono disposti a scrivere qualcosa di apposito. Tutto l’intro di quattro minuti che abbiamo fatto la scorsa estate con Tiziano Ferro, un’introduzione giocata sul tema dell’acqua, l’abbiamo fatto insieme a Tiziano con un nostro sound designer. Avevamo una visione globale di questa introduzione in cui siamo intervenuti pesantemente a livello musicale. Quella musica serviva per raccontare Tiziano.
Voi realizzate progetti in tutto il mondo, ma parlando specificamente dell’Italia secondo voi ci sono modelli esteri che qui da noi si fa ancora fatica a realizzare? Penso per esempio ai grandi festival musicali in Europa.
[CP] È solo la dimensione. Secondo me dopo la nuova frontiera di Modena è un varco che si è aperto da solo. Bisogna trovare grandi investitori, è quello il problema, perché i festival sono anni che cerchiamo di proporli però mancano i soldi, ma dal punto di vista tecnico non c’è nessun problema.
[F] L’Italia dal punto di vista delle capacità tecniche è ormai al livello dell’Inghilterra, non c’è nessuna differenza.
[CS] A dire il vero negli ultimi 2/3 anni stanno aumentando tantissimo i festival anche in Italia. Già quest’estate ce ne saranno di importanti, come l’I-Days.
[CP] Però ci sono anche altre cose che ci danno soddisfazione, come l’opera, che ci porta in tutto il mondo. Questo è un altro nostro business degli ultimi anni. Un’opera, al contrario di un concerto o uno show televisivo, può durare 10-20 anni.
Ho letto che vi piacerebbe curare il palco del Festival di Sanremo. Come sarebbe un palco dell’Ariston firmato Giò Forma?
[F] Molto italiano! Per noi è il momento che l’Italia sia al livello di tutti gli altri, non abbia più bisogno di rincorrere, di fare qualcosa all’inglese, all’americana. Se noi facessimo Sanremo sarebbe una cosa esageratamente italiana. C’è tanta di quella bellezza da raccontare, chiaramente in maniera rivista… Sanremo ha sempre un po’ guardato all’estero, invece dovrebbe trovare se stesso e secondo noi ha tutte le carte in regola per farlo.
Qual è il futuro del vostro mestiere? Un po’ lo accennava Florian.
[F] La nostra fortuna è che è un mestiere che non ha età. Non bisogna essere un ragazzino per disegnare un palco di un giovane DJ. Poi stiamo tornando con molto successo alle origini: la lirica sta diventando una parte importante. Quello che abbiamo imparato dalla musica, anche come tecniche del racconto, lo stiamo espandendo alle mostre, come quella di Esselunga. Usiamo gli stessi metodi e funzionano. Un futuro è questo. Un altro è che, come stiamo vedendo negli spazi pubblici, alla fine è veramente “tutto palco”.
[CS] Anche a livello di live la parola che sta prendendo sempre più tendenza è “immersività”. Vai a un concerto e non ci sono più il palco e il pubblico ma è tutto palco. Probabilmente questa cosa si espanderà ancora di più: tu vai in giro per la città e sei “dentro a un palco” perché magari gli edifici sono schermi, hanno effetti, musica, diventa l’analogico rispetto al digitale. Fra poco il concerto inizierà fuori dall’arena, avrai delle esperienze già avvicinandoti in metropolitana.
[F] Gli artisti capiranno che il loro medium è cresciuto. Già stanno imparando che i social media fanno parte di loro e – sarà una banalità – ovviamente un concerto ha un aspetto social che prima non aveva. Per noi i prossimi concerti saranno eventi come il secret cinema. Noi siamo estremamente positivi.