Alexia, Feelings Queen
La regina degli anni ’90 e primi 2000 torna con un singolo che punta tutto sulle emozioni. Nella nostra nuova cover digital ci racconta dei suoi ricordi di quegli anni, da quello di Renato Zero al suo primo Sanremo «ero troppo sensibile e professionale, fui un po’ usata», fino al Tomorrowland di questa estate dove ha realizzato che «finalmente la dance non è più musica di Serie B»
Alexia è tornata e lo fa con una consapevolezza e con una ondata di leggerezza e ritmo che non possono che fare bene. Oggi è uscito I Feel Feelings, il suo primo brano in inglese dopo ben 20 anni, un pezzo scritto per lei dal trio canadese synthpop dei Dragonette. «Tornare a ricantare in inglese dopo un po’ di anni è stato come tornare a casa», ci racconta Alexia, la “regina della dance”, di Uh La La La e Summer Is Crazy, che nel ’96 e nel ‘97 esplosero in Italia e in tutto il mondo, in questa intervista al termine del servizio per la nostra cover digital di questa settimana che la vede protagonista. «Ci stava dopo così tanti anni e un po’ di tormenti attraverso la ricerca del mio modo di esprimermi. Ho capito che non ero sempre contenta di cantare in italiano».
La notorietà che Alexia raggiunse negli anni ’90, arrivando ad esibirsi ovunque e raggiungendo la top 10 con i suoi singoli in UK, è davvero difficile da paragonare oggi a quella delle cantanti italiane. Senza dimenticare che nel 2003 Alexia vinse il festival di Sanremo.
Dopo la sua sorprendente esibizione al Tomorrowland di quest’estate insieme alle Nervo, il ritorno della cantante ligure è legato a un forte desiderio di far parlare le emozioni più di ogni altra cosa, «voglio spingere tutti ma soprattutto le nuove generazioni a esprimersi». Nella nostra intervista Alexia, all’anagrafe Alessia Aquilani, ci racconta come sono stati gli anni dei suoi esordi, quanto ha sofferto, chi l’ha aiutata veramente.
L’intervista a Alexia
Come mai hai sentito che l’italiano non era la lingua giusta per te per cantare?
Ci sono delle ragioni tecniche: con l’inglese la voce entra in modo diverso nei pezzi e si possono fare più giochi. Credo che tutti i colleghi italiani che cantano in inglese conoscano questa sensazione. Per esempio, questa idea può dartela anche il napoletano perché hai le sillabe tronche, infatti Geolier scrive dei pezzi stupendi con basi fighissime. E poi io sono cresciuta ascoltando canzoni in inglese: a partire da Liza Minelli, tra tutte.
Ma hai provato a cantare in napoletano?
Certo, quando ero piccola mia mamma mi aveva iscritto a diversi concorsi canori. Quindi mi avevano fatto cantare in napoletano e io avevo scoperto il grande piacere di stare sul palco. Anzi non solo starci ma anche abbracciare il palco. E da lì ho iniziato a cantare in inglese, come se fossi stata un’artista americana, magari di colore, una “mumy” insomma.
Ma chi ti ha poi costretta a scegliere l’italiano e perché?
Nessuno mi ha mai costretta ma nell’industria discografica si sviluppano determinate convinzioni. Quando si vede che ci sono 10 casi fortunati si tende a seguirli senza stare a guardare il caso specifico. Per esempio, di fronte ad alcuni artisti che magari provano a cantare in inglese ma il loro è più uno scimmiottamento, ci sta consigliare loro di cantare nella loro lingua madre. Per me non era così automatico: era difficile coniugare la mia personalità con l’italiano.
Hai anche vinto il festival di Sanremo nel 2003.
Lo so ma con l’italiano mi sentivo ripetitiva. Credo che un artista debba avere sempre qualcosa di interessante da raccontare mentre io mi chiedevo ma cosa sto dicendo? Probabilmente avevo anche bisogno di chiarirmi i pensieri e di metterli in ordine come ho fatto in questi anni: tutto questo si può ritrovare nelle canzoni che sto pubblicando ora.
In questi anni hai imparato a gestire in maniera diversa le critiche e i “suggerimenti”?
Certo. Non ero in grado di capire che cosa fosse giusto per me o perlomeno che cosa fosse giusto fare perché andasse bene agli altri, quindi era difficile orientarsi. Poi fai un bel percorso, ti guardi indietro e inizi a capire qualcosa. Si fanno mille tentativi, anche con molti fallimenti e infine ce la si può fare. Arrivi a capire la rotta da prendere e vedi che torni a riscuotere interesse e curiosità. A quel punto diventa una tua convinzione e non un suggerimento da parte di qualcuno.
Ti sei fatta aiutare anche da un percorso con uno psicologo?
Certo, credo sia fondamentale per gli artisti trovare uno spazio dove decomprimere. Per poter affrontare le paure, le insicurezze, la voglia di dire basta. Invece è fondamentale comprendere che bisogna mettere una linea tra l’essere artisti e l’essere persone che hanno una vita privata. Le due cose non devono corrispondere.
Probabilmente negli anni ’90 era più difficile da scegliere, anche per le convinzioni che vigevano.
Io non ne avevo proprio il tempo. Ma in quel periodo non potevo ammettere di avere un problema, nel caso avrei dovuto inventare una scusa molto grave per assentarmi magari solo una settimana. Io negli anni ’90 e primi 2000 ero una corda di violino, in costante tensione per qualsiasi cosa. Non capivo che rappresentavo qualcosa, spesso un sogno per molte persone. Non riuscivo nemmeno a rilassarmi quando ero nel silenzio, per me la cosa più semplice era paradossalmente salire su un palco con 200/300 mila persone davanti.
Mi spaventavo solo quando ero sola con 3 o 4 persone che puntualmente mi facevano presente che cosa non fosse andato bene. Erano bravissime a individuare proprio il mio punto debole, che poteva essere il fatto che avessi la ritenzione idrica, fossi troppo stanca o non abbastanza magra.
Pensi che avresti dovuto o potuto fare qualcosa?
Non so, non credo. Perché è facile per tutti dire avrei potuto fare così o cosà ma quando sei giovane è davvero difficile. Vuoi mantenere tutto e sei terrorizzato di perdere terreno ma poi così facendo ci rimetti solo tu. Io ci sono arrivata dopo moltissimi anni di cognizione di causa.
Secondo te ora la situazione è migliorata nei confronti delle artiste?
Non saprei. Perché ora non ho il tempo di entrare così tanto in contatto con chi è in testa le classifiche e parlo soprattutto delle donne. Sai io comunque sono cresciuta in una famiglia in cui mia mamma era ed è super cattolica e quindi dove la donna veniva vista come preda facile per poter arrivare al successo. Per questo io personalmente non volevo mai presentarmi come troppo vamp: piuttosto sembravo molto più giovane e sbarazzina. Ma perché ero una timorata di dio fondamentalmente e non me ne rendevo troppo conto.
Oggi, per fortuna mi sembra che ci siano meno barriere per le artiste. Le ragazze oggi mi sembrano più consapevoli del loro corpo e non hanno più paura di esporsi. Mi piace anche quello che dicono nelle interviste, trovo che sia molto più coraggio. Penso che non possiamo né dobbiamo sempre mortificarci. Anche negli anni ’90 ci sono stati degli esempi meravigliosi. Madonna, all’estero, è ovvio. Ma prima ancora dobbiamo tutti ringraziare Loredana Bertè. Ha avuto un coraggio da leoni e ha subito delle critiche ingiuste incredibili.
Tu l’hai conosciuta?
In un paio di occasioni, è stata di una dolcezza assurda.
Alexia, hai collaborato con un numero infinito di artisti importanti, da Renato Zero a Claudio Baglioni, di chi conservi il ricordo migliore per un aiuto inaspettato?
Tutti mi hanno insegnato qualcosa, soprattutto quando ho collaborato con artisti di generazioni diverse dalla mia. Da Gianni Morandi ho imparato come deve essere l’approccio a un brano nuovo in studio di registrazione. Per lo stesso pezzo ho visto in azione come produttore artistico ed esecutivo Eros Ramazzotti. Quindi due pilastri insieme nello stesso momento. Con Renato Zero ho avuto un rapporto diverso: lui mi ha dato una spinta per i live indescrivibile. Con il suo sguardo capivo che mi vedeva come una figlia e infatti mi aveva scelto per aprire i suoi concerti. Quello sguardo me lo porterò dietro per tutta la vita.
Qualcuno che ti abbia deluso invece?
Sono sempre stata fortunata per gli incontri artistici che mi sono capitati. Nel 2009 essere chiamata da Mario Lavezzi per interpretare un brano scritto da Mogol fu un grande onore. Ecco un raro caso in cui mi piacque particolarmente cantare nella mia lingua. Ricordo che spesso ero io a richiamare Mogol sulle cose da fare perché lui si perdeva via con elucubrazioni artistiche.
E ora hai proposto un brano a Carlo Conti per l’edizione 2025?
Eh sì, ma siamo in 200 miliardi per cui chi lo sa!
Che ricordi hai dei quattro festival a cui hai partecipato?
Bellissimi. Il primo del 2002 rappresentava per me un cambio di marcia importante perché stavo uscendo da un momento di crisi profonda con il mio primo produttore che mi aveva portato ad avere dei successi incredibili in tutto il mondo. Ma anche i rapporti più incredibili possono incrinarsi. Comunque, ero una ragazzina molto sensibile, molto seria e professionale ma a volte questa cosa non era presa in considerazione. Mi sentivo un po’ usata, ecco. Ma dimostrai che potevo farcela con le mie gambe e questo ebbe per me una valenza incredibile. Anche degli altri festival conservo un ricordo ottimo perché è chiaro che ti viene regalata una visibilità che niente altro ti dà in questo Paese.
Invece del Tomorrowland di quest’estate?
È stato veramente incredibile. Prima di salire sul palco mi sono detta, “va bene, sto tranquilla” e sono andata, con le Nervo. Il problema è stato quasi più dopo quando sono scesa e ho visto Afrojack e David Guetta nella mia stessa stanza che si bevevano qualcosa. Insomma, ho realizzato che 20 anni fa i giornalisti dicevano che la musica che facevo era di serie B e che forse io non ero nemmeno una cantante. E io mi ero appena esibita sullo stesso palco di questi giganti! Gente che cambia il PIL del suo Paese con la dance. Posso aggiungere anche che giovedì scorso quando a X Factor c’è stata la serata dance è parso piuttosto evidente che non è così semplice cantare una canzone dance?!
Ora che cosa vuoi fare davvero nel mondo della musica?
Voglio sfruttare questo momento di grazia interiore che per me è la cosa più importante. Voglio divertirmi e far divertire e ballare le persone. Vorrei che ritrovassero la leggerezza che oggi manca un po’ dato che stiamo vivendo un periodo storico difficilissimo. Credo che la musica nel cercare di raccontare il disagio abbia esagerato e abbia affondato troppo la lama. Ma non voglio giudicare il lavoro degli altri perché prima di tutto dico: provate voi ad andare in studio di registrazione e a muovere tutte quelle persone.
Quindi io voglio fare questo: portare leggerezza ma senza tralasciare il messaggio. Voglio spingere tutti, ma soprattutto i giovani, a imparare a riconoscere le proprie emozioni e a esprimerle. Non è facile, me ne rendo conto. Ma possono essere come tsunami, specie quando ti innamori per la prima volta. Ecco, per me è fondamentale piangere e condividere con i nostri figli, dire loro: anche io ci sono passata. Sai quanti no mi sono arrivati nella vita perché ero troppo bassa? O perché non mi vestivo in modo abbastanza provocante? Bisogna parlare e condividere, anche con le amiche. Basta che lo si faccia più di persona e di meno al telefono.