Interviste

Astro’s World

Nelle 17 tracce del suo album di debutto, il rapper sperimenta su più piani e lo fa in modo mai forzato, in un flusso creativo continuo in cui esistono solo lui e la sua arte. E oggi con la sua musica vorrebbe «dare ai ragazzi di seconda generazione un altro punto di vista, perché il nostro futuro non è per forza essere come vogliono che siamo»

Autore Greta Valicenti
  • Il11 Ottobre 2024
Astro’s World

Astro, foto di Antonio De Masi

«Sono contentissimo di questo, è proprio quello che vorrei venisse fuori da questo disco». Mi risponde così Astro, classe 2000, quando all’inizio di questa intervista gli dico che la prima parola che mi viene in mente ascoltando il suo album di debutto eponimo, uscito lo scorso venerdì, è “versatilità”. Nelle 17 tracce di Astro, infatti, Rida sperimenta su più piani e lo fa in modo mai forzato e sempre credibile, in un flusso creativo continuo (non a caso è uno dei termini che userà più volte per spiegarmi come vive il processo di scrittura e non solo) in cui esistono solo lui, la sua arte e ciò che in quel momento gli passa per la testa.

Foto di Antonio de Masi

Una cosa che ha imparato (anche) da Mace in quelle session di MAYA nell’ormai famoso casolare di campagna dove ha registrato quel ritornello magico di Lumiere, vintage e futuristico allo stesso tempo, e dove ha capito che «per quanto io possa fare quello che devo e farlo al meglio, non posso controllare niente», portando questa attitudine non solo nella sua musica, ma anche nella vita. Da lì in poi, la svolta.

Se, infatti, «le primissime release me le vivevo proprio male, pensavo sempre in modo negativo e cercavo sempre la certezza che le cose sarebbero andate in un certo modo per non farmi aspettative», ora per Astro – che anche nella spiritualità ha trovato quelle risposte che ha sempre cercato e che hanno reso tutto più nitido – mentalità non fa solo rima con, ma diventa sinonimo di libertà. Quella da cui si fa trascinare in studio e quella che vuole trasmettere ai giovanissimi troppe volte ingabbiati nei pregiudizi degli altri, perché «se vuoi, che so, dipingere, puoi farlo anche se sei un marocchino delle popolari».

In questa chiacchierata a poche ore dall’uscita del suo album abbiamo fatto un salto nello sfaccettato mondo di Astro, da quando da piccolo «guardavo i cartoni animati e non c’era nessuno che mi assomigliava, ascoltavo la musica e nessuno mi assomigliava, poi è arrivato Ghali e finalmente mi sono rivisto in qualcosa e ha dato a tutti noi la speranza di dire “possiamo farlo”» ad oggi che «con la mia musica vorrei dare ai ragazzi di seconda generazione un altro punto di vista, perché il nostro futuro non è per forza essere come vogliono che siamo».

L’intervista ad Astro

Che bambino e che adolescente sei stato?
Sicuramente super vivace, curioso di brutto. Mi ricordo che scappavo sempre, mia madre mi racconta spesso che quando uscivamo io iniziavo a correre fortissimo per andare vedere cose in giro. Però non lo facevo mai a casa di gente, dove invece stavo sempre seduto composto. Con gli altri ero molto timido.

Della tua infanzia a Catania che ricordi hai?
In realtà pochissimi. Mi sono trasferito a Salsomaggiore Terme quando avevo solo tre anni e in Sicilia ci sono tornato solo una volta ma ero ancora piccolo. Ricordo solo una strada buia.

Il passaggio da Salsomaggiore a Milano com’è avvenuto?
Mi sto trasferendo ora definitivamente. Le prime volte che sono venuto a Milano era il 2018 e la prima persona che ho conosciuto è stato Sadturs. Io mi sono sempre arrangiato con i type beat registrandomi a casa o in studio quando riuscivo ad andare per un’ora con 20-30 euro. Quando abbiamo iniziato a fare le cose insieme è stata la prima volta che lavoravo con un producer vero.

Ti piace Milano?
Sì, anche se il mio sogno sarebbe prendermi una bella casa in campagna col mio orto. Mi piace la tranquillità e poi ultimamente sono in fissa con i cavalli!

A proposito di campagna, Mace ci aveva raccontato che per registrare MAYA aveva preso questo casolare dove vi eravate ritrovati tutti. Cosa ti ha lasciato l’esperienza con lui?
Mace è un artista incredibile che segue molto il flow. Mentre eravamo in studio magari stavamo registrando una cosa, si alzava e iniziava a suonare altro, poi altro ancora, tutto in un flusso continuo e il suo gatto che girava nello studio. Questa attitudine mi ha aiutato molto.

Anche nel tuo album?
Nell’album e nella vita. Ho lasciato le redini della mia vita e faccio quello che devo dando il mio meglio, sapendo però che non posso controllare niente. Prendo le cose in modo molto più easy. Prima pensavo di brutto, sempre, anche in studio. Facevo un pezzo e dicevo “Ah ma magari poi la gente dice questo di questa barra”. Ora non è più così, anzi. In questo disco forse due pezzi sono stati scritti, tutti gli altri sono venuti fuori in freestyle.

C’è stato qualcos’altro che ti ha fatto scattare questo cambiamento?
Dai 16 anni ad oggi cerco delle risposte e alla fine le ho trovate nella religione. Se tu provi a pianificare 20 cose da fare in una giornata non andrà mai come ti eri prefissato, nemmeno le cose più banali. Le cose succedono, le persone tornano e escono dalla tua vita ed è tutto scritto.

E invece Ghali in cosa ti ha aiutato?
Lui è un artista che davvero mi ha lasciato qualcosa. Il fatto di crescere e avere una figura di seconda generazione che fa quello che ha fatto lui mi ha dato la speranza di dire “okay, allora anche io posso farlo”. È come quando sei piccolo e, essendo straniero, guardi i cartoni animati e non c’è nessuno che ti assomiglia, ascolti la musica e non c’è nessuno che ti assomiglia. Quando arriva quella persona che ha delle origini così simili alle tue finalmente puoi rivederti in qualcosa. Per me Ghali è un fratello grande umanamente e un mentore dal punto di vista lavorativo.

Ti piacerebbe essere la stessa cosa per i ragazzi più giovani?
Sicuramente. Quello che vorrei è dare un altro punto di vista ai ragazzi di seconda generazione, la speranza nel poter dire “okay, il mio futuro non è per forza essere come vogliono che io sia o finire in situazioni assurde”. Da piccoli certe cose ci sono sempre state negate in automatico. Da bambino non andavamo praticamente mai al ristorante e le poche che lo facevamo ero tutto preso male perché mi dicevo “forse le persone attorno a me pensano che non dovremmo stare qui dentro”.

Hai sofferto tanto i pregiudizi della gente?
Sofferto no, ma sicuramente sono cose che ti rimangono e queste voci nella tua testa influenzano molto il modo in cui ti comporti e quello in cui parli con le persone. Uscire dalla provincia, soprattutto andando in America, mi ha aiutato tanto a togliermi quella cosa.

Nell’intro del disco dici “So che dovrei essere felice, ma qualcosa nella testa mi dice di no. E quando sembra la fine, penso a tutti gli amici che non ho più”.
Questo mio pensare così tanto mi ha rovinato molti momenti. Ricordo che le primissime release me le vivevo proprio male, pensavo sempre in modo negativo e questa cosa un po’ mi autosabotava. Cercavo sempre la certezza che le cose sarebbero andate in un certo modo per non farmi aspettative. Quest’anno poi è stato veramente strano, da quando abbiamo deciso di fare l’album sono successe delle cose assurde che però mi hanno fatto dire “ok, è tutto scritto”. A volte dai per scontato che certe persone ci saranno per tutta la vita, poi arriva il momento in cui capisci che devi andare dritto da solo e che le persone che sono con te ci sono perché ci devono stare.

Dici “abbiamo” e non “ho” deciso.
Per me è importante la dimensione collettiva. Questo album è il frutto di una squadra, un processo di vita più che di lavoro. Non è stato un andare in studio e dire “facciamo questo pezzo perché serve al disco”, ma vivere davvero le cose che succedevano in un flusso costante. Tutti poi hanno lasciato un qualcosa nell’album. Ognuno nel team ha un pezzo che gli ricorda un momento della sua vita e questa cosa secondo me è una figata.

E per te qual è quel pezzo?
Ultimamente sono affezionato a Macchina nera perché è più spensierato, mi dà da quell’energia positiva che mi ricordo tipo Gunna. Ma anche Apposta, uno di quei pezzi che da fan canterai a squarciagola.

Cosa vorresti che arrivasse maggiormente di te al pubblico con questo album?
Vorrei che le persone capissero il mio mondo. Ho chiamato il disco Astro perché alla fine di tutto mi sembrava l’unica parola possibile, in questo progetto ci sono tutte le mie sfumature, è un po’ come se fosse il mio biglietto da visita per far capire che, e non lo dico in modo arrogante, io non sono come gli altri rapper. Sono un marocchino che fa musica ma a cui piace pure l’architettura, per dire.

Ah sì?
Un sacco, io sono proprio un esteta, ma se vuoi fare qualcosa di stiloso quella componente lì è necessaria. Penso tipo a Pharrell o Kanye, che fanno musica ma sono diventati anche delle icone di stile in generale. Col tempo mi piacerebbe costruire quella cosa là, lavorare nella moda, nel design. Vorrei fare delle cose belle per dire a un ragazzino che può fare esattamente quello che vuole. Che se vuole che ne so, dipingere, può farlo anche se è un marocchino delle popolari. Questo è il messaggio che che vorrei lasciare.

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