Interviste

Un casolare in campagna per salvare la musica: “MAYA” è il disco che volevamo ora da MACE

Concepito in Toscana con il registratore acceso 24h, il producer ha dato forma a un album ambizioso e riuscito in ogni sua sfumatura. E ci fa capire che solo con questo modus operandi puoi giustificare un sacco di feat

Autore Tommaso Toma
  • Il4 Aprile 2024
Un casolare in campagna per salvare la musica: “MAYA” è il disco che volevamo ora da MACE

Foto di Siermond

Se non conoscete bene cosa significhi “una persona mercuriale”, vedere MACE mentre parla in questa intervista del suo nuovo album MAYA (Island / UMG) – finalmente disponibile da domani – lo potrebbe spiegare magnificamente. Lo si capisce dal suo fisico asciutto, dalle sue gambe elegantemente accavallate, mentre con fare agile Simone (questo il suo vero nome) muove le lunghe braccia descrivendoci l’idea fondante di tutto il suo nuovo album. Raccogliere un sacco di artisti e amici in un bel casolare in campagna, sul far dell’autunno, e provare a stare insieme, creando musica e idee non stop. Da questa sorta di pietra angolare si erge tutto l’impianto creativo di MAYA che sta in piedi benissimo. Nonostante sia affollato da tante voci (ben 28) e tante influenze musicali.

MAYA, un album con citazioni dal passato e riferimenti al clubbing londinese

Ai mercuriali non manca neanche un’altra caratteristica: l‘essere ambiziosi. In un tempo dove i feat pullulano su tutte le produzioni, ti aspetteresti uno che vuole andare contro corrente scegliendo la via solitaria (vedi Rondodasosa). Ma come fai a pensare MACE senza la sua ricca tavolozza di creature e talenti che arricchiscono le sue intuizioni e soprattutto la sua enorme sensibilità?

Ascoltando MAYA, ti rendi conto che ha davvero delle fondamenta stabili e di qualità (perdonatemi questa metafora edilizia, saranno i condoni del governo nell’aria…) che ci spingono fino nel fondo della memoria di lontani ricordi sonori, antichi riferimenti. A partire dalla maestosità quasi cinematografica della opening track, Viaggio contro la paura. Con tanto di orchestra e la voce setosa di Joan Thiele (ma quando sentiremo un album grandioso tutto suo?).

E poi i sitar che ondeggiano in brani come Mentre il mondo esplode o in Solo un uomo (con una notevole Altea alla voce). Merito anche degli amici musicisti fidatissimi che MACE usa da tanti anni. Come Enrico Gabrielli e Fabio Rondanini dei Calibro 35, l’ottimo chitarrista Danny Branzini, Marco Castello o Ricky Cardelli. Ma non mancano i riferimenti agli amati suoni londinesi del clubbing, «Noi italiani quando sentiamo una roba nuova dall’Inghilterra la vogliamo rifare uguale», chiosa MACE. «Loro ti citano sempre delle fonti come ispirazione, ma poi nella loro musica le senti al cinque per cento. Il restante è novità e inventiva». Come per esempio la ibizenca Ossigeno e la notevole Strano Deserto cantata da Cosmo. Ecco, MACE e Cosmo salveranno il pop italiano? Lo speriamo.

L’intervista a Mace sul suo nuovo album

Sei stato in un casolare in campagna in Toscana, dove ti immagino circondato da tanti strumenti differenti e curiosi e da tanti amici e musicisti. Questo è stato il primo momento da “facciamo delle cose e poi vediamo che succede” o tu avevi già delle idee?
Tutto vero, mi sono portato da veri set di percussioni africane a un harmonium, e poi sitar, synth… E prima di entrare nel casolare avevo in mente due idee, molto precise, per il processo creativo. In primis un approccio al lavoro molto “organico”, creando una sorta di comune con tanti artisti, vivendo così insieme per un certo periodo. E secondo, volevo fare un disco che potessi tradurre molto bene dal vivo.

Quindi non sei arrivato lì con un canovaccio da seguire, un preciso concept?
No, tutto si è tutto materializzato dall’interplay di tutte queste persone, di tutti quegli strumenti. E noi eravamo sempre insieme, non uscivamo mai da lì. Ti dirò di più: lo studio era in modalità recording h 24. Quindi se alle tre del mattino, anche se una parte del collettivo stava dormendo, magari a qualcun altro veniva un’idea, ci mettevamo a suonare, consapevoli che quelle session sarebbero state registrate.

L’elemento natura ha influenzato il processo di scrittura?
Assolutamente. Conta che davvero eravamo immersi nel verde. Anzi, ti dirò, era un ottobre particolare, c’erano ancora i colori molto accesi di una estate appena passata e intanto si percepivano già i toni autunnali. È una tenuta molto bella, dove c’è anche la possibilità di fare delle belle passeggiate. Talvolta uscivamo dallo studio e ci mettevamo sul prato, portandoci delle chitarre. Tutto questo ovviamente ha influito su MAYA, tanto che mi piacerebbe portare all’estremo questo concetto in futuro. Magari andare che ne so, ad alpe Veglia (ai confini della Valle d’Aosta con la Svizzera, ndr) e trasferire lì uno studio mobile per qualche giorno. Insomma, portare ancora più all’estremo questo contatto tra natura e uno studio di registrazione. Di sicuro questo disco è nato dal desiderio di star lontano dalle città.

A proposito, ricordo in alcune interviste per il tuo precedente disco, OBE, avevi detto che eri arrivato a cinquanta paesi visitati, adesso a che numero sei arrivato?
Diciamo (ride, ndr) più di sessanta! Qualche giorno fa sono tornato in Egitto per fare scuba diving, una nuova passione.

Spesso nel passato raccontavi che lavorando con gli artisti pop li trovavi spesso con il “freno a mano”, con una certa mancanza di osare, di andare oltre…
Ah, il “freno a mano” da parte di chi ha collaborato in quelle sessioni in Toscana e in generale per tutto il disco non c’è mai stato. Anzi, il freno a mano forse ho dovuto azionarlo io a un certo punto e anche a malincuore perché alla fine ci siamo ritrovati con così tante canzoni per il nuovo disco. Alcune addirittura di 20 minuti, con lunghi cambi armonici e ritmici, grandi assoli di chitarra. In quel momento del processo creativo non avevo ancora esattamente in mente come doveva essere MAYA, ma avevo comunque preso una decisione e anziché tenermi nel disco quei lunghi trip sonori, ho pescato le parti più belle e alcuni momenti molto speciali li ho messi da parte a mio malincuore. Ma sono lì. Un domani li potrò utilizzare.

Mi fai venire in mente le parole di Cosmo che ha “scoperto il pop” con Alessio Natalizia e adesso vorrebbe produrre i giovani per dargli un’idea diversa di pop, meno banale.
Che discone ha fatto Cosmo… Ma certo, c’è tanta musica mainstream che spesso viene fatta in fretta con loop e reference banalissime, sembrano uscite da una catena di montaggio.

Ti nomino due parole che mi sembrano chiave nel tuo percorso e condividere con te i miei pensieri a riguardo: solitudine e spaesamento. La solitudine come la castità è molto più sopportabile e interessante se è una libera scelta. Lo spaesamento è un sentimento verso la vita fatto di timore ma anche di venerazione, di potenza e di bellezza.
Mi piacciono queste due parole e il fatto che si trovi un senso positivo a termini che quasi sempre hanno una connotazione negativa. Io le ho cercate, è stata una scelta personale e diventano così una qualità. Però più che della solitudine tout court, io ho bisogno di lunghi momenti per lavorare da solo, che alterno a questi momenti collettivi che ti ho descritto. Invece lo spaesamento per me è una grande qualità nell’arte, nella musica, nel cinema, perché va in direzione opposta all’essere rassicurante.

Alla fine non viene fuori mai niente di interessante dall’essere troppo “rassicuranti”. Quello che cerco io di fare e che mi piace appunto e offrire dei twist, delle nuove prospettive dal flusso delle cose che stiamo ascoltando. Mi piace la musica psichedelica perché si fonda molto sullo spaesamento dell’ascoltatore, lo si desidera portare in un’altra dimensione.

Tu lasci completamente carta bianca sui testi a chi collabora con te, è una grande fiducia.
Sì, l’unica cosa che chiedo a ciascuno è: “Scrivi qualcosa che possa invecchiare bene, che possiamo ascoltare tra qualche anno e ci piacerà ancora e che non sia solo un riempitivo”.

Ogni tanto i tuoi guest ci riescono perfettamente come accade in Ossigeno, dove il tuo amico Venerus canta: “Siamo così piccoli, ci preoccupa essere liberi, ma ci dimentichiamo che ci serve ancora ossigeno, non cambieremo mai”.
L’inizio di questo pezzo era nel cassetto da tempo, poi è decollato. Anche grazie a Enrico Gabrielli.

Posso dire che Enrico ma anche Fabio Rondanini sono importantissimi in questo album?
Decisamente. Ripeto, questo disco è nato da una grande affinità con bravissimi artisti come loro. Io sono solo una componente del tutto. Tenevo le redini ma questo disco non sarebbe stato tale senza Enrico, Fabio. Ma anche Danny Bronzini e Riccardo Cardelli o Leo Vertunni che suona magnificamente il sitar e ci fa volare. Tutta gente che di musica ne sa ne sa molto più di me.

Non so come dire, io magari ho una visione e contestualizzare le cose per metterle insieme in maniera inedita. Però per me è stato fondamentale avere gente che ne sapesse più di me di musica e ti garantisco che i primi giorni, anche se era tutta gente che conoscevo bene, è stato quasi intimidatorio per me avere persone che da un punto di vista puramente teorico di conoscenza della musica – e non intendo di storia della musica, ma proprio come linguaggio, sintassi – ne sapessero molto più di me.

C’è un brano che mi piace tantissimo ed è Lumiere. Questa idea di infilare Digital Astro e Tony Boy dentro un pezzo che suona come un brano sixties californiano di fine anni ’60, tutto very cool.
Amo anche io Lumière. Allora, mi ricordo che volevo fare una roba molto tipo rock psichedelico californiano, quindi tra i riferimenti c’erano ovviamente i The Doors. Infatti ho detto ridendo: “Raga, immaginatevi Jim Morrison tutto fatto che cammina nel deserto”. Una volta buttata giù non avevo ancora pensato alle voci da metterci. Poi qualche mese dopo ho risentito il provino e ho pensato ancora che fosse fighissimo, però non mi interessava far scattare l’effetto nostalgia e quindi l’ho smembrata. Ho aggiunto delle nuove parti ho rifatto la ritmica ed è diventata una roba nuova, più moderna ma con quella radice lì. E di proposito ho chiamato Digital Astro che è giovanissimo e non ha mai sentito i The Doors e si è inventato un bellissimo ritornello.

Share: