Diventare grandi è come un Errore 404: Barns Courtney racconta il nuovo album
A inizio settembre esce il secondo album di Barns Courtney, l’artista britannico giunto all’attenzione del mondo pop rock con le sue hit “Glitter & Gold” e “Fire”. L’abbiamo incontrato a Milano per farci raccontare “404” – questo il titolo del disco – e la sua idea di futuro della guitar music
Ventinove anni, energia da vendere e il mondo davanti. Barns Courtney è uno di quei musicisti nati per lo spettacolo. Il songwriting è il suo elemento da sempre ma il successo l’ha raggiunto in età non più giovanissima: le hit Glitter & Gold e Fire (2015) l’hanno messo all’attenzione della scena pop rock anglosassone per via del suo tocco acustico, delle melodie di matrice blues e della sua complessiva attitudine rock and roll. Il nuovo album – 404, in uscita il 6 settembre per Universal Music – è più “synth-driven” e meno acusticheggiante, ma non rinuncia a quell’approccio spontaneo e sincero che è la principale preoccupazione di Barns. Lo incontriamo di passaggio a Milano per una conversazione in cui è un vero fiume in piena.
Dal momento che sei un chitarrista, prima di tutto mi piacerebbe chiederti di parlarci della tua educazione musicale e di come hai maturato il tuo gusto nel songwriting.
Ho iniziato cantando canzoni insieme a mia mamma, per esempio di gruppi dance degli anni ’80.
Tipo?
Human League, Simple Minds… Ci piaceva tantissimo quel tipo di musica. Mia madre è una signora particolare, molto divertente. Per questo la “performance” è una parte molto importante della mia vita sin da quando ero piccolo, oltre che parte della mia famiglia e del modo in cui interagiamo. Mia zia mi comprò la mia prima chitarra quando avevo 14. Ho imparato a suonare da autodidatta. Ma non mi sono mai preoccupato di approfondire troppo la teoria. Pensavo: “Sono il cantante di una band, non devo conoscere troppo lo strumento!”.
A me piace scrivere canzoni. Sono andato a un college musicale quando avevo 17 anni ma mi hanno sbattuto fuori al secondo anno perché saltai molte lezioni per fare un contest televisivo chiamato Orange unsignedAct in cui cantavo canzoni terribili… Questo è il mio background musicale, e solo quando ho intrapreso un progetto solista ho iniziato ad approfondire la conoscenza della chitarra. Ho pensato: “Oddio, forse è meglio che suoni il mio strumento come si deve”.
Il tuo nuovo album 404 uscirà a inizio settembre. Ci dici qualcosa di più sul concept del titolo, che immagino sia una sorta di metafora ironica? E come lega insieme tutte le canzoni dell’album?
Seguo fedelmente quella filosofia di David Bowie secondo cui il posto in cui scrivi musica ha una grande influenza sul tema e sul sentimento dei brani. Per questo ho convinto l’etichetta del fatto che avevo bisogno di una villa a Carmel-by-the-sea in California (dalle parti di Monterey, ndr) per registrare 404. Sai, non potevo fare un nuovo album senza un’elegante villa! (ride, ndr) Sono andato lì e non ho scritto niente, spendendo tutto il budget e schiantandomi con la macchina del golf in una fontana. Lì non trovavo nessuna ispirazione. Nella mia testa avevo questa idea alla Rolling Stones, ma lì ho trovato solo un mucchio di ricchi in gilet e basta. Ma il vino era spettacolare: mi sono sbronzato un sacco.
Così ho voluto scrivere 404 con il mio collaboratore di vecchia data, Sam, un grande inventore di sintetizzatori. Ma i suoi vicini si lamentavano. Così siamo andati a casa dei suoi genitori, proprio dove avevamo iniziato a scrivere insieme quando avevamo 18 anni. Sono passato dalla villa stupenda e soleggiata in California a questa periferia di Peterborough (Regno Unito, ndr). Era metà gennaio, era buio tutto il giorno e pioveva di brutto. E ho scritto tutto 404 lì, perché non c’era nient’altro da fare.
Ero molto preoccupato che dopo il primo album – che aveva molto a che fare con la depressione e il bisogno di sfondare in tempi di avversità – non avessi molte cose da scrivere in maniera sincera. Ma il fatto di trovarmi dove tutto era iniziato, insieme al tipo con cui ho avuto il mio primo contratto discografico, ha tirato fuori tanti argomenti e tanta ispirazione, nell’ottica generale delle difficoltà del diventare grandi. Essendo cresciuto negli anni ’90, all’inizio dell’era di internet, il titolo dell’album, 404, mi sembrava adatto. Come saprai, il 404 Error compare quando cerchi qualcosa che non esiste più. Mi sembrava una buona metafora per questi ricordi che cercavo di riportare in vita. Da adulti cerchiamo di vivere di nuovo quelle esperienze – dell’infanzia, dell’adolescenza – ma sono svanite per sempre.
So che le parti vocali di 404 sono state registrate in larga parte in un solo take e spesso improvvisate. Mi ha colpito questo tuo approccio.
Sì, non su tutto 404. Penso che quello sia il modo in cui viene fuori il materiale più sincero. Quelli che senti sull’ultima traccia di 404, Cannonball, era la prima volta che lo cantavo. È semplicemente venuto di getto. Anche Boy Like Me è improvvisata nelle strofe. Ma per esempio una canzone come 99 ce l’avevo nel cassetto da tre o quattro anni come melodia. Per il testo ho usato la tecnica “cut-up” di David Bowie. Hai presente?
Non esattamente.
Scrivi una serie di parole e di frasi su fogli diversi, li tagli e li lanci per terra e crei nuove combinazioni con i frammenti. È un modo molto bello per far dire al tuo subconscio quello che vuole esprimere. Per esempio, quando non sei più un bambino perdi quel senso di innocenza, ma come puoi dirlo in una canzone? Così per terra c’erano parole come bambino, denti, latte, bianco… E allora: “When your baby teeth ain’t milky white / Wipe the stardust from your eyes” (versi di 99, ndr).
E parlando di 99, per te cos’hanno di speciale gli anni ’90? Quali sono le sue glorie?
Quello che cercavo di dire in quella canzone è che quegli elementi entusiasmanti della tua infanzia non devono finire quando diventi grande. Sì, ti devi “togliere la polvere di stelle dai tuoi occhi” e lasciarti una serie di cose alle spalle, ma la tua attitudine nei confronti della vita può continuare a essere divertente, curiosa ed entusiasmante. Ma ho anche messo un sacco di ricordi personali in quella canzone. Molti riferimenti in realtà sono degli anni ’80, perché la mia infanzia era fatta anche di quelli.
Che tu sia un attore, un cantante o un pittore, è davvero difficile trovare un modo per esprimerti in modo trasparente e genuino. È difficile comprendere la tua vera essenza e tirarla fuori. Io suono con una band e mi piace fare concerti rock and roll mozzafiato, ma sono partito come computer nerd… (ride, ndr) Amo i videogame, mi piacciono ancora i Pokémon. È stato bello avere una canzone che racchiudesse insieme entrambi i lati della mia personalità.
Parallelamente all’uscita di 404 partirà il tuo tour, prima negli USA e poi in Europa. Come porterai l’album dal vivo? Cosa vedremo sul palco?
Credo fermamente che tu ti possa tranquillamente ascoltare la musica a casa, quindi perché preoccuparsi di venire a un concerto se non è eccitante e non ti dà qualche nuovo elemento? Quando vai via da un concerto dovresti sempre sentirti diversamente da quando ci sei arrivato. Detto questo, mi piace strutturare i miei show in modo che crescano gradualmente fino al climax finale. Per cui scelgo canzoni che seguano quella naturale “narrazione”. Questo significa che devo lasciare fuori i brani più lenti, perché voglio che il pubblico non si annoi neanche per un minuto.
Magari farò delle esibizioni acustiche separate, prima dei concerti, così potrò suonare alcuni dei pezzi che non farò in elettrico. Vedrò se avrò abbastanza soldi per realizzare dei visuals, per i quali ho tante idee. In fin dei conti, voglio che l’intero palco sia un enorme set, qualcosa di molto visivo che si possa anche “espandere” nel pubblico, che lo coinvolga. Voglio che il pubblico entri in un universo parallelo quando viene a un mio concerto.
Parlando del singolo You and I, mi piace molto il video perché ha quel particolare humour. Perché hai voluto dare quel tipo di tocco? E come interagisce ciò con il testo del brano?
Avevo visto i lavori del regista, Pablo, e ne sono rimasto colpito, ho subito pensato che dovessimo fare qualcosa insieme. Ha fatto un sacco di spot televisivi che sono delle vere opere d’arte. Per il mio video c’era una crew di un centinaio di persone in totale, dai ballerini agli attori. You and I è stata la prima canzone che ho scritto per 404. All’epoca ero preoccupato di non trovare grande ispirazione, dopo aver tanto basato la mia narrazione intorno all’idea della depressione. Mia madre mi ha chiamato dicendomi che un tizio le aveva scritto una canzone e chiedendomi se mi andava di suonarla. C’era solo il testo. Era terribile! Ho fatto del mio meglio per migliorarla.
Ho chiesto a mia mamma come aveva conosciuto quel tipo e mi ha raccontato la storia di questo amore adolescenziale che ebbe quando ancora viveva nell’Inghilterra settentrionale. Mia nonna non lo sopportava, perché voleva che mia mamma sposasse un ricco e questo ragazzo era povero in canna: trasportava patate su un camion. Lui le faceva dei mixtape: per esempio le fece conoscere i Doors (The Crystal Ship è la mia preferita). Quando lei iniziò l’università voleva andare il più lontano possibile dai miei nonni. Per cui si trasferì all’estremità meridionale dell’Inghilterra per frequentare l’università di Plymouth. Il ragazzo, che non aveva soldi in tasca, si fece tutta l’Inghilterra in autostop solo per andare a trovarla, ma arrivato lì scoprì tramite un’amica di mia mamma che lei si era trovata un altro ragazzo.
Oggi, a distanza di decenni, lui è un milionario e vive in Australia. Ha contattato mia mamma su Facebook e si sono ritrovati. Mi è sembrata una storia bellissima e ho voluto che la canzone parlasse di questo. “Mixtape’s wearing down / Crystal ships are sailing out / Now the doors are opening for you” (versi della strofa, ndr): si riferisce sia alla canzone dei Doors che all’inizio dell’università da parte di mia madre. Lei è molto contenta di avere una canzone sull’album! (ride, ndr)
Ti sei esibito in show televisivi molto importanti come quelli di Conan O’Brien e James Corden. Che tipo di opportunità rappresentano questi show globali per un artista?
Mi è piaciuto suonare in quei programmi. È stato anche terrificante. La cosa peggiore è che ti fanno entrare in una stanzetta alle 10 di mattina e stai lì ad aspettare fino alle 8 di sera per una performance di pochi minuti. Una tortura! Ma quei programmi non hanno influito sulla mia fanbase quanto Spotify o Instagram. Posso davvero percepire una distanza fra vecchi e nuovi media. Un po’ come negli anni ’40, quando la gente si spostò dalla radio alla televisione: potevi essere ancora affezionato ai vecchi “gangster show” della radio, ma c’era quella nuova cosa – la televisione – che rappresentava il livello superiore. Per cui penso che i media si baseranno sempre di più su internet e sarà un processo molto interessante.
Hai collaborato con i Prodigy sul loro ultimo album nel brano finale, Give Me a Signal. Cosa rappresenta una band come quella per un ragazzo britannico degli anni ’90? E quali sono i tuoi pensieri sull’eredità artistica di Keith Flint?
È stato molto agrodolce fare quel pezzo, perché ero onorato di far parte del disco ma quando è morto Keith (poco tempo dopo) mi sono reso conto di essere sull’ultimo brano dell’ultimo album che lui ha fatto. Questo ti fa domandare: “Mi sono meritato una cosa del genere?”. È un grosso peso da portare: qualcuno di più grande avrebbe dovuto stare al mio posto.
In ogni caso è stato davvero significativo per me essere in quell’album. All’inizio non potevo credere che mi volessero. Avevo scritto quel ritornello per una mia canzone: doveva andare su Rather Die, nel mio primo album. I Prodigy l’hanno sentita – tramite il nostro comune amico Ollie Burden – e hanno chiesto che potesse essere usato come ritornello per il loro brano. La cosa interessante è che i Prodigy fanno i pezzi solo in determinate tonalità, in modo che i bassi riverberino meglio. Per cui hanno voluto alzare la melodia di un’intera ottava: era davvero al limite delle mie possibilità. Non penso che sia la mia performance vocale migliore, ma loro ne sono stati contenti.
La tua musica si basa molto sulle chitarre, approccio che non è fra i più diffusi nel contesto mainstream di oggi. Che futuro vedi per la “guitar music”?
Io amo la guitar music. Amo il classic rock: Led Zeppelin, Queen, Rolling Stones – quelle sono le fondamenta del mio amore per la musica. Ho studiato attentamente lo stile di Steven Tyler per riprodurlo nelle mie performance: tenevo anche un foulard legato al microfono… Ma quello che la gente dimentica è che tutti loro erano innovativi per i loro tempi. Espandevano i confini della musica rock. È passato molto tempo dall’ultima volta che qualcuno lo ha fatto. Mi piacciono le band come i Greta Van Fleet, trovo che siano di grande talento. Ma non saranno certamente la prossima grande band, perché fanno qualcosa che c’è già stato (anche se lo fanno molto bene).
Penso che il futuro della guitar music debba portare qualcosa che non si è ancora sentito. Quel ragazzino, Yungblud, è pazzesco. È un freak: ed è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno. È cresciuto nell’era dell’ascolto di playlist in streaming, piuttosto che dell’acquisto di CD. Per lui è naturale mescolare i generi, perché fa parte della sua crescita musicale. Ma allo stesso tempo ha un innegabile spirito rock and roll. A volte fa qualcosa che ricorda le melodie degli Oasis con una chiara influenza dell’hip hop nella struttura dei brani e anche nelle linee vocali. Ma è tutto molto organico e naturale: è semplicemente quello che lui è, la pura espressione delle sue origini. Penso davvero che lui sia l’incarnazione di dove dovrebbe andare la guitar music.