Bianco: «La mia generazione è più consapevole di quel che si pensi»
Il nuovo album Canzoni Che Durano Solo un Momento segna i primi dieci anni di carriera del cantautore torinese (e della sua label, INRI). L’abbiamo intervistato
Un traguardo piccolo ma significativo: con il nuovo album Canzoni Che Durano Solo un Momento, Bianco celebra dieci anni tondi di carriera discografica (in parallelo con la sua etichetta INRI, la cui prima release fu proprio il suo album d’esordio Nostalgina del 2011). Per motivi anagrafici e stilistici, il cantautore torinese appartiene alla generazione immediatamente anteriore a quella dell’esplosione itpop. O, se vogliamo, a quella che con la propria intelligenza artistica le ha spianato la strada. Amarcord a parte, nel nuovo disco di Bianco si avverte una varietà di suoni e ispirazioni che è figlia anche di una modalità più “solitaria” nella scrittura. In più, troviamo tre azzeccatissimi featuring: Colapesce, Dente e i Selton. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente nella sua Torino.
Con questo disco tagli il traguardo dei dieci anni dal tuo esordio come Bianco con Nostalgina, che segnò anche l’inizio dell’avventura di INRI. Guardando indietro, qual è un tuo personale bilancio?
Già il fatto di esserci arrivati mi sembra un ottimo traguardo, perché non è una cosa scontata per un progetto che non è prettamente pop o da hit radiofoniche. Sono sempre riuscito a trovare gli spazi e le persone che dessero credito alle mie canzoni. Dal punto di vista della collaborazione con INRI, essendo nati insieme ci siamo visti crescere reciprocamente. In questo decennio sono cambiate tante cose. Il fatto di fare della musica un lavoro mi ha dato molta responsabilità. Ci sono stati periodi in cui non è stato semplice scrivere. In passato era spesso un esperimento, adesso c’è più coscienza.
Se Qu4ttro era un disco che parlava di amicizia, come lo descrivesti all’epoca, Canzoni Che Durano Solo un Momento di cosa parla?
Forse parla più di me stesso all’interno di una generazione che è quella dei millennials: persone che vengono criticate per volere tutto subito, per lamentarsi di cose che non hanno, quando in realtà ci rendiamo conto che abbiamo molto di più di quello che ci serve. Quest’ultimo anno ce ne ha dato la prova.
In tracklist troviamo tre featuring – Colapesce, Dente e i Selton – che appartengono tutti alla generazione dei “fratelli maggiori” dei nuovi artisti indipendenti di oggi. È stata una scelta generazionale?
Nasce dal fatto che siamo molto amici fra di noi. Quello che ci accomuna è il linguaggio, il modo di vedere la musica e questo mestiere, il fatto di cercare sempre nuove soluzioni per le nostre canzoni. In ogni canzone c’è un motivo ben preciso per la scelta del featuring. Già nelle prime versioni di Saremo Giovani, per esempio, c’era una parte caraibica e colorata che ho chiesto poi ai Selton di approfondire. Stesso discorso per Mattanza, che vede Colapesce come co-autore e cantante: parla di un argomento che lui ha affrontato molto nelle sue canzoni, il disagio generazionale. Idem per Morsa: nelle corde vocali di Dente c’è quel modo di dire cose importanti in maniera sempre leggera, senza mai sembrare retorico o pesante.
E dei nuovi artisti di oggi c’è qualcuno che ti piace in particolare?
Sicuramente un mio “compaesano”, Fusaro, con cui ho fatto una canzone (Serie A, ndr). Poi mi piace molto Marco Castello, che non so quanti anni abbia ma è al suo disco d’esordio (Contenta Tu, ndr). Poi apprezzo molto la scrittura di Fulminacci. E direi anche Emma Nolde, che è anche compagna di agenzia (Locusta Booking, ndr).
È solo una mia impressione o questo disco restituisce una gamma di suoni e di ispirazioni più variegata rispetto a Qu4ttro?
Sì, forse è stato perché – almeno in una prima fase – l’ho costruito da solo: in base a come mi alzavo al mattino, esploravo mondi sonori diversi fra loro. È stato divertente sentirli uniti nel disco, in fase di mix. È stato sviluppato meno “da band” e più con degli amici che passavano in studio: questo ha aperto mondi diversi.
Da dove vengono quelle atmosfere un po’ reggae di Morsa?
È un genere che io ho ascoltato tanto e qui a Torino in alcuni anni è andato molto, per esempio con i Bluebeaters e gli Africa Unite. Il pezzo è nato così, in levare. Con Dente ci siamo detti: “Ma perché non lo facciamo produrre al capo del reggae in Italia?”, cioè Paolo Baldini.
Il pezzo si basa sulla ripetizione di un refrain molto semplice e molto bello che è “Se uno sta male, gli altri lo vanno a salvare”. Come ti è venuto?
Ammetto che mentre lo scrivevo mi facevo un po’ paura da solo, perché è una cosa che sfiora la retorica, e mi terrorizza sempre l’idea di cadere in quella trappola. Però era bello, mi andava di dirlo. Ho chiamato Dente perché era l’unico che poteva rafforzare quel concetto senza renderlo pesante. Mi sembrava anche un momento storico in cui mi sembrava necessario dire quella frase. Infatti poi è stata accolta in maniera molto positiva dal pubblico.
Mi spieghi il senso di quello scenario quasi post-apocalittico che descrivi nelle strofe di Come Se?
La lettura legata a questo periodo della pandemia è abbastanza ovvia, ma io ho scritto questa canzone un paio d’anni fa. Stavo ragionando insieme al mio amico Andrea Bonomo e parlavamo del fatto che viviamo in una società che abbandona pezzi di se stessa, senza occuparsi di ciò che sembra apparentemente superfluo. Quindi ci siamo immaginati questo ultimo uomo sulla terra che scrive una lettera ai prossimi abitanti del pianeta denunciando il fatto che, anche quando ci si trovava per ascoltare musica nei parchi, poi comunque si mettevano cancelli fra le persone.
In una precedente intervista ci raccontavi che tu sul computer hai una cartella chiamata “canzoni per altri”, contenente appunto i lavori che fai per altri artisti. Si chiama ancora così la cartella? Ci puoi dire cosa contiene oggi?
La cartella continua ad esistere, è un po’ più “cicciona” rispetto ad allora. Non essendo la mia occupazione principale, ci sono periodi in cui si riempie di più che in altri. Però è sempre lì, ci sono proposte che per scaramanzia non dico neanche a mia moglie. Non lo chiamo passatempo perché ci metto tutta la serietà del mondo, ma adesso non riesco a metterlo in primo piano perché sono concentrato sulle mie cose.
Bianco, tu sei da sempre un grande fan dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Come hai accolto l’arrivo di Davide Toffolo sul palco dell’Ariston quest’anno?
È sempre bello vedere degli amici su quel palco – e quest’anno ce n’erano proprio tanti. È anche bello vedere quelli che ci arrivano dopo un percorso lungo, perché danno a quel palco il peso giusto. Anche Colapesce e Dimartino: da un lato in qualche modo erano dei pesci fuor d’acqua, dall’altro erano super consapevoli, come se fossero su un palco normale. È stata un’emozione bella.