Deborah De Luca, storia di una vera dj napoletana
Incontro con la partenopea doc arrivata a livelli di fama planetaria. A lei è dedicata la cover del nostro numero speciale che uscirà il 18 dicembre: forte, assertiva, senza peli sulla lingua siamo entrati nel suo mondo per conoscere le sue origini
e anche le sofferenze dietro una vita di lustrini e riconoscimenti
Spesso è più semplice immaginare donne forti, assertive, senza peli sulla lingua, che imbattersi davvero in una di loro. Quando l’incontro avviene con Deborah De Luca per questa intervista, invece, si capisce subito che si è di fronte a una rappresentante della categoria. Non si fa problemi a dire che una cosa non le sta bene e a raccontare la pura e semplice verità, senza bisogno di infiocchettarla ad arte. Ma anche a fermare tutto perché vede un cagnolino in strada e teme sia stato abbandonato, e non smette di chiamare un amico finché non è sicura che riesca a portargli del cibo.
Di donne come Deborah ce ne sono poche. E non solo perché è una DJ techno di fama planetaria, con numeri spaventosi: più di un milione e 120mila ascoltatori mensili su Spotify e date in ogni continente. La DJ napoletana non nasconde nemmeno le sue ferite, interiori ed esteriori. Prendere o lasciare.
Deborah è l’artista che ti racconta anche come in un post sul suo profilo Instagram si possa concentrare il succo dei suoi ultimi anni. Lei, nel giorno del suo compleanno, rannicchiata nella cuccia della sua cagnolina, mentre l’abbraccia con tenerezza, come se in quell’abbraccio potesse ripararsi dagli orrori del mondo. Allo stesso tempo, è la DJ che tutti fermano in strada a Napoli, riconosciuta da tutte le fasce d’età, anche dalle signore che passeggiano per le vie del centro e che di sicuro non vanno ad ascoltare i suoi live.
Abbiamo trascorso con lei due intere giornate nella sua città. Siamo andati per le vie del centro e dei quartieri Spagnoli e pian piano ci siamo fatti raccontare la sua storia. Dalla sua infanzia e adolescenza a Modena, dove si era trasferita con la famiglia partenopea, ai primi lavori come cameriera, poi ballerina, infine DJ techno tra le più famose al mondo. Dall’intuizione di riprendersi e condividere i video su MySpace al rapporto con Nina Kravitz e a quello con i suoi genitori. Fino al suo rimpianto più grande. Il cuore di Deborah è grande ma solo per chi passa le selezioni all’ingresso. È un puro cuore di una dj napoletana nata a Napoli.
L’intervista completa a Deborah De Luca è disponibile sul numero speciale in uscita il 18 dicembre e prenotabile a questo link.
L’intervista a Deborah De Luca
Come era il contesto della tua famiglia quando sei nata?
Nasco a luglio del 1980 nel rione Don Guanella a Scampia, in un momento in cui si poteva ancora vedere il cielo. Perché dopo poco tempo lì costruirono il ponte che coprì all’improvviso la vista alle case. Abituati a farsi togliere tutto gli abitanti non dissero niente, ma venne loro tolta persino la luce. Io frequentai l’asilo, le elementari e l’oratorio di Don Aniello Manganiello, il prete che si batteva e si batte contro con la camorra. Siamo ancora in contatto perché io sono sponsor della squadra di calcio Don Guanella. Mio padre lavorava in un negozio di frutta e verdura ma era un napoletano atipico: non accettava di vivere per le briciole, non solo dal punto di vista economico. Per questo decise di trasferirsi al Nord così andammo a Mantova. Poi a Sassuolo e infine a Modena.
Come sono stati gli anni di Modena?
All’inizio, da piccolina facevo la spola tra lì e Napoli dove stavo con mia zia. Ma a un certo punto quando iniziai a chiamare mia zia mamma, quest’ultima decise di prendermi con sé. A Modena andammo a vivere in periferia, in questi palazzoni blu pieni di napoletani, perché all’epoca eravamo parecchio ghettizzati. Eravamo molto uniti ma non mi sentivo troppo a mio agio.
Deborah, mentre prima guardavamo le tue foto del passato hai detto che per te la musica era il piano B, perché in realtà volevi fare la ballerina, a vedere tutti i successi che hai raggiunto oggi, fa una certa impressione.
Molti ce l’hanno con me perché dicono che per loro il voler diventare DJ è una passione viscerale che coltivano da quando sono bambini. Io qualsiasi cosa abbia fatto nella mia vita ho cercato di farla al massimo. Anche quando ero una cameriera: volevo essere la più veloce e quella che serviva più clienti di tutti. Stessa cosa da piccola: ricordo perfettamente che quando avevo 4 anni la maestra ci aveva dato un libro su cui disegnare e che sarebbe dovuto durare un anno mentre io lo avevo finito in due giorni. Non ero particolarmente dotata ma mi impegnavo a comprendere bene le cose. Andavo benissimo in disegno e mi incazzavo se qualcuna prendeva voti alti in quella materia solo perché andava bene nelle altre.
Hai sempre detto quello che pensavi.
Sempre e mi ha penalizzato. Non mi ha mai aiutato.
Ma la passione per la musica quando è nata?
Innanzitutto, è nata grazie a mio padre che era un grande collezionista di vinili e da piccolina mi concedeva il sabato pomeriggio di metterne alcuni sul giradischi. Infatti, appena ero diventata più grande, a Modena, andavo nei negozi di dischi dove, con 10mila lire (che per me erano tante), mi facevano scegliere i brani e mi creavano le compilation. Era fantastico per me, così non stavo ore ad aspettare che la radio passasse i miei brani preferiti. A quel punto avevo solo problemi con le pile, che erano il lusso assoluto, i miei non avevano grandi possibilità e io le consumavo in fretta.
Cosa ti piaceva?
La musica dance anni ’70 e ’80 soprattutto. Anzi, ricordo che la prima volta che sentii un suono dance mi dissi “Ops, che succede!”. Li sentivo strani ma mi piacevano di brutto. Fin da ragazzina immaginavo di aggiungere qualcosa ai brani, magari una cassa, per esempio. Era come se in testa mi partisse un arrangiamento personale. La musica mi è sempre piaciuta, il mio primo cd l’ho acquistato a 16 anni. Era dei Fugees, The Score, e conteneva Killing Me Softly, uno dei miei pezzi preferiti. Il secondo era la colonna sonora di Save The Last Dance, pazzesca.
Come eri tu a sedici anni?
Piuttosto emarginata, stavo sempre in un banco da sola, non riuscivo a legare con nessuno. E proprio a quell’età ho deciso di scappare di casa.
Come hai fatto?
Dopo la morte di mia nonna, mia madre aveva deciso di tornare a vivere a Napoli per aiutare mio nonno. Io non volevo nella maniera più assoluta perché sapevo che se lo avessi fatto non avrei avuto nessuna opportunità di studiare. Io amo e ho sempre amato Napoli ma capivo che non ce l’avrei fatta. Al massimo avrei fatto la parrucchiera di quelle che vanno a casa della gente per 5 euro all’ora. Anche io ho preso 5 euro all’ora, non lo dico per quello, quando ero cameriera al Caffè Concerto a Modena.
I tuoi ti hanno lasciata senza fare storie?
Tutt’altro, mia madre aveva fatto di tutto per riprendermi. Come ogni mamma del Sud lanciava grandi quantitativi di sapone per pulire a terra e io approfittai di uno di quei momenti per scappare, correndo proprio quando lei non sarebbe riuscita a muoversi. Insomma, non mi aveva lasciato con tranquillità. Quando i Carabinieri mi trovarono, chiesi di parlare col Giudice per convincerlo a lasciarmi da sola. Avevo puntato sul mio diritto allo studio. Quindi mi lasciarono nella nostra casa dove pagavo l’affitto. Per mangiare mi aiutavano a volte le famiglie delle mie amiche, a volte mio zio che faceva il pizzaiolo. Però tutto il resto, che poteva essere prendersi un semplice gelato, lo rifiutavo. Per questo mi isolavano, pensavano che me la tirassi.
Leggi l’intervista completa nel nostro magazine prenotabile qui.