Deep Purple, fuori il nuovo album “Whoosh!”: «L’importante è non essere una parodia di noi stessi»
L’inossidabile band britannica è tornata con un nuovo album di inediti. Ce lo racconta il bassista di lungo corso Roger Glover
Quando Ian Gillan e Roger Glover – cantante e bassista – si unirono ai Deep Purple nel 1969, probabilmente non immaginavano che quella formazione sarebbe diventata una delle più monumentali leggende del rock. La mitica “Mark II” (Gillan, Blackmore, Lord, Glover, Paice) fra la fine degli anni ’60 e i primi ’70 fu artefice di una muscolare trasformazione delle esperienze del rock anni ’60 (blues rock, psichedelia, primo progressive) in un precipitato scuro, potente, rumoroso. L’alchimia creò un nuovo elemento nella tavola periodica del rock: il metallo pesante, di cui i Purple furono pionieri, anche se “heavy metal” è una definizione certamente riduttiva per la loro musica.
Con lo stesso spirito di libertà creativa di un tempo, la band britannica continua la sua lunga marcia con una lineup che ricalca in buona parte quella di allora (eccetto Ritchie Blackmore, che non ne vuole sapere di tornare nel gruppo, sostituito da Steve Morse nel 1994; e Jon Lord, uscito nel 2002 e scomparso nel 2012, rimpiazzato da Don Airey). E continua a pubblicare musica inedita: ieri, 7 agosto, è uscito il nuovo album in studio Whoosh!, che un gioviale Glover ci ha raccontato senza sottrarsi a digressioni storiche sul periodo d’oro. Ecco un estratto dell’intervista che troverete integralmente sul numero di settembre.
Il testo di Throw My Bones risuona molto bene con questi tempi particolari, soprattutto in versi come: “I don’t know what lies ahead / It’s all a mystery man / I take a guess at what happen next”. Anche voi avete trovato nuovi significati nel brano dopo lo scoppio della pandemia?
È bizzarro, perché quando scrivi dei testi lo fai da un punto di vista personale. Io e Ian Gillan scriviamo i testi insieme. Passiamo ore ad ascoltare la musica immaginando cosa diremo. Quando finisci il testo, assume un significato diverso da quello che avevi pensato all’inizio, succede sempre. Penso che scriviamo in un modo tale da lasciare spazio alla libera interpretazione.
Nothing at All è uno dei pezzi più “orchestrali” di Whoosh!. Ovviamente quel tipo di ispirazione è sempre stata parte dello spirito dei Deep Purple. Ma l’approccio alla scrittura di un brano così è lo stesso di pezzi più schiettamente hard rock come per esempio Drop the Weapon?
Per noi è sempre una sorpresa vedere come sarà un album una volta finito. Semplicemente ci mettiamo a suonare, non abbiamo piani prestabiliti. Non scriviamo le canzoni dall’inizio alla fine: le suoniamo finché non si evolvono in qualcosa che sorprende noi stessi. Non ci interessa essere all’altezza delle aspettative di nessuno se non di noi stessi. Con una grande storia come la nostra, forse l’unica cosa che cerchiamo di fare è di non essere una parodia di noi stessi. Ci sono gruppi che suonano molto più potenti di noi e il confronto sarebbe impietoso, ma non vogliamo essere così.
Sempre parlando di brani di Whoosh!,What the What rievoca una Londra rock and roll anni ’60 che immagino tu abbia vissuto da vicino. Come descriveresti quel periodo e quel mondo a chi è nato dopo e altrove?
Ho conosciuto il rock and roll quando avevo undici anni, un’età perfetta. Non era solo una nuova musica di tendenza: era una rivoluzione musicale. Sono cresciuto con esso. La musica è una cosa meravigliosa: è un medium invisibile che scompare un attimo dopo l’ascolto. Ascolti un pezzo una volta e diventa parte di te. Questo è il problema dell’invecchiare: c’è troppa musica nella tua testa! Quando ero negli Episode Six con Ian Gillan, tutto ciò che volevamo era una hit. Ma quando ci unimmo ai Deep Purple nel 1969, all’improvviso compresi una nuova impostazione: non si trattava di rincorrere il successo, la fama, i soldi, ma solo di fare musica. E questo è rimasto: cinquant’anni dopo, la musica è ancora la forza trainante della band.
Deep Purple in Rock fu pubblicato esattamente 50 anni fa. Se lo ascolti oggi, quali pensieri vengono alla tua mente? Quali impressioni ricevi dalla persona e dal musicista che eri in quel momento?
Ci si ricorda più delle azioni che delle emozioni. Mentre lo facevamo, di sicuro non sapevamo dove stessimo andando. Avevamo scritto le canzoni ma non avevamo un produttore. Fu solo quando registrammo gli ultimi due pezzi, Hard Lovin’ Man e Flight of the Rat, che conoscemmo Martin Birch (ingegnere del suono e produttore, ndr). Nel frattempo avevamo girato molto in tour e i concerti diventavano sempre più pazzeschi.
C’è molta aggressività sul palco, molto caos, mentre per fare un disco hai bisogno di più disciplina. Nel caso di quei due pezzi, portammo nello studio lo spirito del palco: li suonammo con la stessa intensità del live, e Martin fu capace di catturare ciò. Prendi gli assoli di organo o di chitarra di quei pezzi, soprattutto quello di Jon Lord su Hard Lovin’ Man: c’è esattamente quello che lui faceva dal vivo, quasi facendo a pezzi l’organo. Quei pezzi ci indicarono la via da seguire, alla pari di Child in Time.