Interviste

Mentre Los Angeles bruciava, Fabri Fibra ha guardato negli abissi, i suoi: l’intervista

Domani uscirà l’undicesimo album del rapper: forse il suo disco più personale dai tempi di “Turbe Giovanili”, sicuramente quello con cui ha sviluppato «la capacità di trovare gli stimoli in cose che ho dentro piuttosto che in quello che c’è fuori»

  • Il19 Giugno 2025
Mentre Los Angeles bruciava, Fabri Fibra ha guardato negli abissi, i suoi: l’intervista

Fabri Fibra

Fabri Fibra è uno di quegli artisti che resteresti ad ascoltare parlare per ore e ore. Sarà che i suoi racconti attraversano ormai quasi tre decenni della musica italiana – da quando il rap italiano non aveva neanche un mercato e «rappavo perché mi piaceva, ma avevo già smesso di credere che ce l’avrei fatta» -, che nonostante le mille interviste rilasciate ci sia sempre e comunque qualcosa di non ancora detto (come la curiosa storia dietro al master di Mr. Simpatia), o che gli spunti di riflessione – sia quelli che arrivano dai suoi pensieri, che sembrano un ingranaggio complessissimo e lucidissimo allo stesso tempo, sia quelli che emergono dai suoi album – sono sempre infiniti, illuminanti e, soprattutto, scomodi. Del resto, non potrebbe essere altrimenti per uno come lui, che dell’essere disturbante (e quindi pensante) ha fatto il suo marchio di fabbrica sin dall’inizio.

Se è vero infatti che – come ha detto una volta Kendrick Lamar – “puoi scegliere di non dare semplicemente alle persone quello che vogliono, e a volte, facendo questo, finirai per dare loro quello di cui hanno bisogno. Ancora prima che lo sappiano“, Fabri Fibra in Italia l’ha fatto prima di tutti: non ha mai dato alla gente quello che voleva, ma quello che doveva sentire.

Stavolta però qualcosa sembra essere cambiato: dopo anni passati a parlare agli altri e per gli altri, in Mentre Los Angeles Brucia, il suo nuovo album in uscita domani, Fibra parla soprattutto a se stesso e raccoglie le ceneri guardando in quell’abisso umano e intimo (che sarà tema ricorrente di questa lunghissima intervista) che sembra scrutare in equilibrio tra la paura di caderci e l’adrenalina della risalita, quella che ti pulsa dentro e ti fa sentire vivo, come a dire che Tutto andrà bene (per citare il titolo di uno dei brani più forti di tutto l’album in cui viene toccato un tema delicatissimo).

Sarà il tempo che passa – anzi, che vola, e che quindi ti mette di fronte alla resa dei conti con ciò che sei diventato -, ma questo è probabilmente l’album più personale di Fibra dai tempi di Turbe Giovanili. Sicuramente quello con cui ha sviluppato «la capacità di trovare gli stimoli in cose che ho dentro piuttosto che in quello che c’è fuori». E infatti tra le 17 tracce c’è una lettera a un figlio mai nato, quella a un padre che non c’è più ma il cui fantasma va ancora lasciato andare per fare pace con quel passato che Fibra non sembra avere intenzione di perdonare (che poi, chi lo dice che il perdono è obbligatorio?).

Seduti su un divano all’ultimo piano della sua etichetta discografica, Fabri Fibra in questa intervista si è raccontato senza tralasciare davvero nulla: dalle dipendenze che lo hanno fatto sprofondare e poi risalire alla volontà – nonostante tutto – di non essere incompreso, passando per il politicamente scorretto e la libertà di espressione («Non è vero che l’Italia è un Paese in cui non si può più dire nulla»), quando ha smesso di uccidere il suo personaggio e il fatto che «la musica è quello che ho scelto di fare nella vita perché in tutto il resto mi sentivo fuori luogo. Mi piace tantissimo il processo creativo per arrivare ad avere qualcosa che prima non c’era. Mi fa sentire veramente vivo».

L’intervista a Fabri Fibra

Più di qualunque altra cosa?
Ho provato ad andare in vacanza, a viaggiare. Certo, è bello, ma non c’è nulla che mi faccia sentire così vivo come quando faccio questa cosa qua. Anche passando attraverso tutti i fallimenti, che sono la cosa che ti manda in un cazzo di abisso da cui ogni volta pensi di non ritornare, e il fatto che riesce a tornare su mi fa sentire vivo, tantissimo.

Abisso è una parola che usi anche nell’intro dell’album. 
Sì, è vero. Ma questi secondo me sono gli anni dell’abisso, tutti siamo davanti a qualcosa di incolmabile. Il vuoto che ti lasciano i social, quello che ti lasciano la fama e il successo, quello dell’intrattenimento che non basta mai. Qualunque cosa fai dura pochissimo, non lascia niente. E più l’aspettativa è grande, più il vuoto che ti lascia è abissale.

A te è capitato di finirci dentro?
Tantissime volte, e non è mai scontato che che ritorni. Anche tutto il periodo che ho fatto con le dipendenze, il fumo, le canne. Ho fumato tantissimo, per più di 10 anni, e quando ho smesso sono finito in un abisso di depressione, di vuoto, di amicizie che non puoi più frequentare. Con questo disco sono risalito. 

In che modo?
C’è stato un periodo in cui non riuscivo a scrivere senza fumare: la marijuana ti dà una sorta di rituale, in qualche modo ti stimola la creatività. Poi però c’è una discesa fortissima, e se non te ne liberi sprofondi in un periodo di astinenza e non riesci più a scrivere.

Ti era già successo?
Sì, nel periodo di Caos. Ci sono stati certi momenti in studio in cui scrivevo e sentivo come se mi si aprisse il terzo occhio. Ho dovuto reimparare a scrivere senza aiuti, e credo di aver sviluppato anche la capacità di trovare gli stimoli e la creatività in cose che ho dentro piuttosto che in quello che c’è fuori.

È interessante questa cosa perché in effetti questo disco mi sembra il tuo più personale forse dai tempi di Turbe Giovanili: c’è la critica sociale che emerge soprattutto dai primi due singoli (Che gusto c’è con Tredici Pietro e Stupidi con Papa V e Nerissima Serpe, ndr), ma ti racconti anche in un lato piuttosto inedito come quello sentimentale.
È vero, sì. Arrivato all’undicesimo disco mi sono detto “se non dai degli elementi in più di te non è detto che la gente ti segua ancora”. Dovevo dare altri strumenti per farmi capire. Mi son sentito tanto dire “ma tu sei sempre incazzato, ma tu critichi sempre la società”: ad un certo punto era come se non riuscissi a sbloccare questa cosa. Vedevo che i feedback che mi arrivavano più o meno erano questi, allora ho detto “adesso sta a me. Se non rilancio dando degli spunti per far capire chi sono, non è detto che la gente capisca cosa dirò”.

Da dove sei partito?
Dalla cosa più difficile: cercare la musica che mi aiutasse a dire certe cose. Dal momento in cui l’ho trovata, allora le cose sono uscite in maniera naturale. Mi fa piacere che hai notato questa cosa, perché vuol dire che allora arriva ciò che volevo arrivasse.

Se posso dire ti trovo anche un po’ riappacificato, e non solo a livello artistico. Mi ha stupita molto il modo in cui hai commentato i fatti che ti hanno coinvolto recentemente: mentre tutti hanno parlato di un precedente grave per quanto riguarda il tema della libertà di espressione, tu hai detto che non la vedi in questo modo, anzi. Non una reazione propriamente dal Fibra che conosciamo…
Diciamo che ho avuto bisogno di tempo per familiarizzare con questa cosa. In qualche modo penso di essere sempre stato di rottura, e quando scrivo sembro più stronzo di quello che in realtà sono. Logicamente stiamo parlando di un contesto artistico in cui tutto va interpretato, ma nel rap questa cosa a volte prende una piega inaspettata. Prendi anche tutto il discorso del politicamente scorretto: col tempo mi ci sono ritrovato in mezzo, ma non l’ho mai analizzato veramente con la dovuta distanza.

Sono passati tanti anni dal testo che ha riguardato quella sentenza, e ho pensato “effettivamente io quella cosa l’ho detta, ho detto quello che volevo e ne ho pagato le conseguenze”. L’Italia non è un Paese che ti censura e in cui non si può più dire niente: se facessi una rima contro la Meloni, non mi manda i carabinieri a casa. Negli Stati Uniti invece succede.

Siamo un Paese più libero di quanto pensiamo quindi?
Secondo me sì. Ci sono delle cose che puoi dire e delle cose che sono meno accettate perché la gente non è abituata a sentirsele dire, ma non per questo tu non le puoi dire. Questa però è una che ho già fatto tante volte, quindi volevo spostare il discorso un po’ più in là, anche a livello personale. A un certo punto inevitabilmente diventi quello che hai sempre criticato, e questa cosa un po’ ti ingabbia. Per un periodo mi sono detto “se sono quello, allora lo faccio”.

Ora ti senti cambiato?
Sì, non sono più quello nel video di Applausi per Fibra. Penso che questo sia il momento giusto per portare avanti qualcosa in più sia a livello di critica, ma soprattutto a livello personale e sentimentale. E infatti credo che in questo disco ci siano delle cose che richiamino i primi lavori, quando non ero famoso e non avevo la pressione.

Cosa senti in particolare dei primi dischi?
Sento la libertà di Turbe Giovanili, l’irresponsabilità di Mr. Simpatia e l’originalità di Tranne te. Ci sono delle cose che mi sono portato indietro, però ci sono anche tante cose nuove.

Quando prima hai detto che nei testi sembri più stronzo di quello che in realtà sei mi è venuta in mente quella storica intervista con Galimberti e Daria Bignardi in cui, incalzato sui tuoi testi, rispondi che bisogna capire chi dice quelle cose, se tu o un personaggio che nel disco dopo uccidi: c’è stato un momento in cui hai capito che avevi smesso di farlo?
Quando ha iniziato a limitarmi nella scrittura e iniziavo a capire che tutto quello che potevo dire con quella formula l’avevo detto. A quel punto ho cercato di sviare, di andare nella direzione opposta. Per me le cose funzionano nel momento in cui la gente là fuori parla quel linguaggio. Quando facevo quei testi così violenti il rap era meno esposto, e quindi c’era più libertà di osare perché chi ascoltava quella musica aveva gli strumenti per capire quella forma.

Poi è arrivata l’era di MTV, in cui il linguaggio doveva cambiare per forza di cose: quando ho fatto Applausi per Fibra sapevo che quello era un linguaggio che poteva essere compreso là fuori, ma ho cercato comunque di portare avanti quel discorso, tanto che le rime di un certo tipo sulla famiglia ci sono anche in quel pezzo. Io ho sempre voluto fare il rap che parlasse alla gente e che riguardasse le persone: non voglio essere incompreso. In questo momento quello di cui ho bisogno è essere sempre originale, riuscire a fare qualcosa che gli altri non stanno facendo, e non mi serve essere particolarmente aggressivo, perché il rap ormai è il genere più famoso oggi in Italia.

Mi fa sempre molto sorridere quando per giustificare certi testi oggi qualcuno dice “E allora Mr. Simpatia?”. Penso che probabilmente nel 2025 un disco così non uscirebbe non perché è scabroso, ma proprio perché il rap non ha più bisogno di farsi notare in modo così disruptive.
Quando io ho fatto Mr. Simpatia non c’era niente. Adesso ti racconto una cosa che non ho mai detto: quando stavo scrivendo quel disco ero convinto che me lo sarei autoprodotto come Turbe Giovanili. Non c’erano contratti, non c’era proprio un mercato. Lavoravo in una fabbrica e montavo i microcheap, le penne, e il fine settimana facevo il glass collector in una discoteca. Stavo in Inghilterra cercando di capire cosa fare della mia vita, rappavo perché mi piaceva, ma avevo già smesso di pensare che ce l’avrei fatta.

Quell’album però volevo farlo uscire, dovevo solo trovare tremila euro per stamparlo. A metà della scrittura mi è arrivata la telefonata di un dj che avevo conosciuto durante le jam che mi ha detto “ho aperto un’etichetta indipendente finanziata da una struttura che ci dà mille euro a master”. Tornato quindi gli ho dato il mio disco: in pratica gli ho venduto il master di Mr. Simpatia per mille euro.

Incredibile.
Immagina quanto poteva fregarmene di quello che stavo dicendo in quei testi. Anzi, ho proprio detto “visto che me lo devo pagare da solo e che lo compreranno in 30, dico quello che voglio e lo faccio anche nel modo più vivace possibile”. Dovevo divertirmi un po’, se no cosa lo facevo a fare? In quel disco poi mi riferivo alle persone che avevano mandato all’aria un po’ tutto, che era una cosa che mai avrei pensato che potesse interessare gente che era fuori da quel discorso.

Ti sei dato poi una spiegazione al perché lo ha fatto? 
Perché era vero. Io mi stavo sfogando di un periodo di frustrazione perché avevamo idealizzato tanto il rap italiano, pensavamo che avremmo combinato chissà che cosa. E invece Sanremo aveva iniziato a chiamato i rapper grossi di quel momento ma non era andata benissimo, le etichette discografiche avevano iniziato a subire il crollo delle vendite a causa della nascita dei siti pirata. Tutto questo ha fatto crollare il mercato e il rap italiano: c’è stato un blackout totale fino al 2006, ma io Mr. Simpatia lo avevo fatto uscire nel pieno vuoto. Mai avrei pensato che quella cosa lì potesse diventare grande. Universal mi chiamò chiedendomi come fosse possibile che quel disco vendesse più di quelli ufficiali. 

E tu?
Non ci potevo credere. Ero già stato scottato dall’idea di pensare di vivere con la musica, quindi non volevo illudermi. Tutto questo per dire che è veramente assurdo cercare di analizzare quel disco oggi, perché è completamente fuori contesto. Nessuno in quel periodo è venuto a dirmi che il disco era troppo violento: erano tutti contentissimi, perché finalmente c’era una cosa che davvero parlava il linguaggio delle persone. Quando poi, anni dopo, sono iniziate ad arrivare le critiche ho detto “cazzo, così però non vale, ormai quella roba è in prescrizione! Parlatemi di quello che faccio adesso, no?”.

Torniamo allora a Mentre Los Angeles Brucia. Dopo Gino Paoli in Caos anche questo album si apre con un sample del cantautorato italiano che è una bella dichiarazione di intenti: niente meno che L’Avvelenata di Guccini.
Mi piace molto fare questi omaggi alla musica italiana, e sono onorato che sia Gino Paoli che Francesco Guccini abbiano accettato che usassi i loro campioni. Ricordo che Guccini in un’intervista disse che del panorama musicale italiano io gli sembravo vero. L’idea de L’Avvelenata arriva da Zef: quando mi ha fatto ascoltare una frase della canzone ho rivisto tantissimo questo mio momento della carriera.

Qual era la frase?
Proprio l’inizio, quando Guccini dice “Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni, credete che per questi quattro soldi, questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni?”. È proprio la mia storia: tutte le critiche per Mr. Simpatia, tutto l’abisso dei social, tutta la depressione che ti porta il successo o il non successo. E poi il fatto che mi sono appassionato di un genere musicale che mai come oggi viene attaccato perché è considerato diseducativo, immorale, per alcuni addirittura non musica. Quel “io canto quando posso, come posso, non comprate i miei dischi e sputatemi addosso” mi riguarda tantissimo.

Letteralmente “Io odio Fabri Fibra”.
Esattamente! Che poi guardavo il documentario su Netflix di Elvis e ho beccato le spillette con scritto “I hate Elvis”, quindi questa cosa c’è sempre stata. Quando Zef poi mi ha portato questo pezzo in studio mi sono detto “okay, il disco partirà da qui”.

Ma poi ti sei dato una risposta alla domanda che si faceva Guccini?
La risposta è che la musica è l’unica alternativa per gente come me che non riesce ad adattarsi alla società. Io non ho mai trovato davvero il mio posto nel mondo, e o era la musica o la follia. Mi sono sempre sentito frustrato, ho sempre avuto una grossa apatia quando mi ritrovato a fare delle cose normali, proprio un senso di incompletezza. Però ecco, forse se avessi previsto tante cose non so se avrei creduto tanto al sogno di fare questa cosa… Non lo so che cazzo pensavo… Forse che fosse l’unica alternativa valida per non finire schiavo di un sistema, ma alla fine mi ritrovo schiavo dei numeri, dei risultati. 

Beh, non una cosa da poco.
Però credo sia la normale fine di tutti perché facciamo parte di una logica collettiva; è un modo per non andare alla deriva. Nel momento in cui hai successo, qualunque cosa farai ti porterà a doverti comportare in una certa maniera, nel momento in cui non lo hai invece continuerai a inseguire quella cosa. Quando io negli anni ‘90 vedevo i primi che facevano i dischi con le major, che facevano bei concerti, io dicevo “cazzo, vorrei fare anch’io un bel concerto, un disco, poi posso anche morire”.

Il minimo sindacale, insomma.
Non avrei mai immaginato che la natura umana ti portasse a desiderare sempre di più. Pensavo che l’appagamento a un certo punto arrivasse, che ci fosse una soddisfazione. Però poi la curiosità di sapere cosa c’è dopo è sempre più forte. Per me è quasi un’analisi: quando faccio un bel concerto, penso sempre a come sarebbe farne uno più grosso. Quando faccio un disco penso sempre “se ne facessi un altro, riuscirei anche a fare un singolo radio?”.

Quindi nonostante tutto sei ancora dentro questo meccanismo.
Sì, e sono stupito di esserci ancora.

Questa cosa però forse è una lama a doppio taglio, non è solo benzina.
Certo, la benzina però genera un incendio dove finiscono mille cose. A me piace la musica, mi piace il rap e mi piace vedere come si evolve, vedere dove va, cosa si può inventare ogni volta. In più c’è il discorso dell’ambizione, perché vuoi vedere dove puoi arrivare tu: come puoi perfezionarti, come puoi dire meglio una cosa. Tutto questo poi porta a un’evoluzione, ma nel mentre là fuori succede un’altra cosa ancora, il mercato cambia. A volte cambia a tuo favore, a volte no. 

Però quel mercato esiste perché lo hai creato tu nel 2006.
Lo hanno creato le canzoni, che sono la cosa che fanno nascere qualcosa che prima non c’era e che nel momento in cui esiste crea una richiesta. Adesso hai modo di fare cose che fino a dieci anni fa nemmeno pensavi, e ora là fuori vengono capite.

A proposito di canzoni: nel disco ce n’è una molto forte dedicata a tuo padre, forse l’ultima figura della tua famiglia da lasciare andare. A differenza però di Nessun Aiuto e Ringrazio, in cui parli rispettivamente di tuo fratello e tua madre, questa è l’unica ad avere un titolo esplicito, Mio padre, appunto.
Sentivo l’esigenza di raccontarmi in modo che nessuno avesse dubbi sulla mia storia o sulla motivazione della mia rabbia. Volevo che le persone contestualizzassero la mia musica. Ero in studio e mi sono detto “di cosa stiamo parlando? Io devo scrivere. Non posso sempre pensare di scrivere mettendo tutti d’accordo”. Se scrivo deve essere qualcosa che ho bisogno di dire, che mi riguardi. Voglio essere di rottura, voglio provocare, voglio fare quello che fanno gli artisti che mi hanno cresciuto. Voglio essere onesto e raccontare la mia vita. Tutti stiamo parlando di libertà di parola, vediamo se c’è davvero questa libertà o se è soltanto il trend del momento. 

Quindi è anche un test questo pezzo?
Anche, sì. Secondo me non è che gli artisti non sono liberi perché qualcuno li limita: non lo sono perché hanno paura. Del giudizio, dei commenti, della stroncatura. Ma posso dirti la verità? 

Devi.
A me non me ne frega un cazzo. Io voglio fare questa roba perché voglio raccontarmi. Non me ne frega un cazzo di cosa diranno, se non piace, se è troppo forte, se è scorretta. Vaffanculo. Se non ti piace la mia musica, non te l’ascolti. Non me ne frega se la commenti, se la critichi, tutte quelle cose non rimangono. Quello che resta è solo la magia che crei con la musica, resta il messaggio che dai, resta il nulla se è giusto che non rimanga nulla. Se c’è una persona che ha problemi in famiglia, cosa ascolta oggi che ormai è tutto un trend per cercare il compiacimento dei social o per seguire la formula del momento?

Poco o niente.
Io voglio fare una cosa che se qualcuno sta vivendo una situazione problematica in famiglia e sente questo pezzo, dice “cazzo, anch’io ho vissuto questa cosa. Questo pezzo mi sta consolando, sta parlando a me e per me”. Quando io sentivo le canzoni degli artisti con cui sono cresciuto, che mi raccontavano i loro problemi, ero contentissimo che mi ritenessero meritevole di sentire il loro malessere. E lì io mi sono innamorato della musica.

Tutti mi criticavano perché ascoltavo il rap, ma a me del resto non rimaneva niente. Le canzoni devono lasciarti addosso una magia, devono accompagnare la tua esperienza di vita. I miei litigavano dalla mattina alla sera, si lanciavano la roba addosso, si insultavano. Sono cresciuto con in sottofondo continuamente le loro cazzo di grida. E ho pensato “sai che c’è? Io questa cosa in qualche modo devo restituirla”, e allora l’ho buttata in musica perché lì non c’è limite a quello che puoi dire. Non è un atto reale. 

Questa cosa che dici è fortissima ed è il motivo per cui per ritrovare certe sensazioni, certe esperienze di vita, devo sempre tornare ai tuoi dischi. Nessuno le racconta come te. Io ho 28 anni e non ci sono artisti della mia età che mi parlino come tu parlavi alla tua generazione con Turbe o Mr. Simpatia. La narrazione è troppo diversa, quella prospettiva non è generazionale ma troppo individualista.
Neanche all’estero?

Non che la raccontino in modo così intenso e preciso. Ad esempio a me ascoltare Turbe Giovanili ha cambiato letteralmente la vita.
Madonna… è bellissima questa cosa che mi stai dicendo. Però tu sei cresciuta nell’era post reality, post talent e questa cosa ha cambiato tutto. Io vengo da una scena musicale in cui dovevi colpire per farti spazio: tutti erano lì a cercare uno squarcio di esposizione e dovevi fisicamente prenderti il tuo posto. La tua generazione invece trovava il suo contesto già nello spettacolo, e quella cosa lì porta al fatto che gli argomenti si siano un po’ standardizzati. Sicuramente avete più scelta di noi: io mi ricordo che quando usciva un disco bello tutti dovevano ascoltare quello e basta. Adesso viviamo in un’era in cui non sappiamo dove aggrapparci. Ecco, forse ripensando a quello che mi hai detto prima il nome che mi viene in mente è Massimo Pericolo. 

Sì, è vero. Da un certo punto di vista mi sembrate molto simili. Entrambi rifuggite un certo lifestyle. 
Lo siamo infatti. Quando l’ho beccato per fare il pezzo sul disco non lo conoscevo bene: ci siamo parlati un po’ e abbiamo scoperto di avere più cose in comune di quanto pensassimo. E poi lui è uno che rifiuta quel tipo di regole, quell’esposizione, che ha davvero l’esigenza di dire quelle cose. È molto emotivo. Dai, uno lo abbiamo trovato alla fine.

Sì, anche se Turbe Giovanili rimane inarrivabile da quel punto di vista.
Quel disco è particolare perché incastra una fine e un inizio, quello di Neffa e il mio. Lì si sono incrociate due storie e poi non è mai più successo.

Quella di Neffa per altro è l’ultima voce che si sente nel disco e ti chiede se stai cercando un beat…
Esatto. È la fine che riprende l’inizio, e poi l’ultimo pezzo è Verso altri lidi, che è prima ancora di Turbe. Ecco, diciamo che in questo disco ci sono delle cose che faranno contenti molti fan…

Le date del tour

Questa estate Fabri Fibra sarà in tour per presentare Mentre Los Angeles Brucia. Tra gli appuntamenti principali il 7 luglio al Circo Massimo a Roma e il 30 settembre (sold out) e l’1 ottobre all’Unipol Forum di Milano. Qui l’elenco completo delle date.

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