Per Franco126 la fine è l’inizio dei suoi “Futuri Possibili”: l’intervista
Un disco di Battisti su uno scaffale, un orecchino, un maglione blu, uno spazzolino che è ancora lì, frasi fatte che ora non sembrano più importanti e 13 canzoni che ci ricordano perché non c’è nessuno che racconta l’amore come lui: Franchino ha raccolto i cocci e li ha messi insieme nel suo nuovo album

Franco126, foto di Ilaria Magliocchetti Lombi
Quante volte, alla termine di una storia, ci siamo chiesti che cosa resta? Nel mio caso, una quasi trentenne che se dovesse scegliere tra mostrarsi vulnerabile e lanciarsi nel vuoto senza protezioni (che poi, qual è davvero la differenza?) starebbe già salendo sul punto più alto, la maggior parte delle volte una miriade di parole non dette, note del telefono piene di messaggi mai inviati e un sacco di orgoglio utile a chissà cosa. A Franco126, che i trent’anni li ha superati da poco, della fine di un amore sono rimasti un disco di Battisti su uno scaffale, un orecchino, un maglione blu, uno spazzolino che è ancora lì, frasi fatte che ora non sembrano più importanti e 13 canzoni raccolte come cocci di qualcosa che si è rotto e che messi insieme compongono Futuri possibili, il suo nuovo album uscito venerdì.
Un disco fatto (anche) di nostalgia, attese, rimpianti e rimorsi, di quel vuoto in cui siamo immersi e che ci abita quando quella persona decide di chiudersi la porta alle spalle, forse per sempre o forse no, e che Franco ha riempito nel modo che conosce meglio: (de)scrivendo senza filtri tutte le emozioni – spesso incoerenti tra loro – che ancora lasciano l’animo in subbuglio, ripercorrendo le immagini e gli attimi, anche quelli che fanno più male, riscoprendo i dettagli e scrutandoli anche con una certa malinconia, quella stessa che Roma gli ha appiccicato e che è difficile scrollarsi di dosso, e – soprattutto – accettando la vulnerabilità come condizione umana imprescindibile.
E solo allora si potrà iniziare a lasciare andare, non senza la paura di sapere che tutto ciò che prima era solo tuo diventerà da quel momento di molti, ma con la consapevolezza di aver messo sul piatto la cosa più importante: la sincerità con se stesso.
L’intervista a Franco126
Nella discografia ormai quattro anni sembrano un’era infinita, ti capita di sentire la pressione di stare costantemente al passo con i tempi velocissimi della musica di oggi?
La sento perché è inevitabile, ma la combatto. Negli ambiti creativi la fretta non porta a niente buono se non sei uno da buona la prima, ma non è decisamente il mio caso. Quello che funziona per me è prendermi il mio tempo, essere onesto con me stesso e capire i miei pregi e i miei difetti, senza stare lì a inseguire qualcosa che non sono.
È un album molto coeso, si capisce che non è una compilation di canzoni ma che racconta una storia nelle sue fasi.
Sì, credo che il motivo sia anche perché ho lavorato prevalentemente con un solo produttore, Golden Years, che ha proprio visto nascere tutto il progetto, e perché è la prima volta che faccio un disco interamente a Roma. Prima scrivevo qui e poi salivo a Milano a registrare da Ceri, mentre in questo caso ho fatto una scelta differente. Però mi piace come è venuto fuori, ha comunque delle cose in comune con i dischi precedenti ma con un suono diverso. E poi c’è un filo rosso che è quell’altalena emotiva che si prova in seguito a una rottura importante, quindi ci sono anche dei pezzi che magari vanno un po’ in contraddizione l’uno con l’altro.
I sentimenti del resto non sono mai coerenti…
Infatti tutti i brani sono usciti in modo molto istintivo, senza ragionarci troppo. I dischi precedenti nascevano tutti da un concept di fondo, mentre qui ho più che altro buttato fuori le cose che avevo da dire. Di solito quando mi metto a lavorare su un disco è perché ho già tanta roba pronta che va sistemata, mentre in questo caso sono partito dal nulla. Diciamo che c’è più pancia e meno testa.
Com’è stato tornare a lavorare da solo, o comunque con un solo produttore, dopo un disco come Cristi e Diavoli in cui dovevate mettere d’accordo sette teste?
Da solo non lavoro mai perché ho l’impressione di entrare in situazioni in cui non riesco a dare il meglio di me. Ho bisogno di avere attorno a me amici, musicisti, perché ciascuno di loro tira fuori un aspetto di me che magari da solo non sarebbe emerso. La stessa cosa è successa con gli autori con cui ho collaborato e con cui mi sono molto messo in gioco.
Ci sono anche più collaborazioni rispetto ai dischi precedenti. In che modo gli artisti che chiami si sono inseriti in una storia così personale?
Con molta sensibilità, si sono messi nei miei panni e sono entrati nel viaggio delle canzoni. E poi sono tutti artisti che stimo molto. Coez è un grande amico, con Ketama ovviamente ci conosciamo da una vita, Giorgio Poi per me è uno dei più grandi cantautori che abbiamo in Italia, Fulminacci e Ele A sono dei talenti cristallini. Tutti hanno reso molto fluido il processo.
Questo è probabilmente l’album in cui ti metti più a nudo in assoluto, c’è un’accettazione della fragilità come punto di forza e non di debolezza. Secondo te siamo finalmente arrivati a un punto in cui anche l’uomo si sente più libero di mostrare la propria vulnerabilità?
Sicuramente è cambiata la percezione della figura maschile e questa cosa è un bene. Io poi mi sono limitato a dire con sincerità quello che sentivo, senza tanti retropensieri. La fragilità è una cosa che ho faticato ad accettare, però col tempo mi sono reso conto che è semplicemente una forte emotività che negli anni è diventata un po’ il mio marchio di fabbrica. Non voglio vergognarmi di essere quello che sono.
Ma come te la vivi poi la cosa che una volta uscito il disco quella storia e quelle emozioni così intime non saranno più solo tue?
Guarda, risentendo il disco con una certa distanza dalle cose che ho vissuto effettivamente un po’ mi spaventa. Mi sono venuti anche dei dubbi sul fatto che fosse davvero troppo personale. Però poi mi dico che questo album l’ho fatto con tanta onestà e mi sembra di aver fatto la cosa giusta per me perché è estremamente mia. Tra le canzoni che avevo scritto c’erano anche alcune che avevano altre direzioni, che parlavano di altro. Ma mi sono reso conto che il viaggio riguardasse proprio un’altra cosa.
Qual è il brano con cui hai capito che il disco era chiuso?
Scacciapensieri, che secondo me è il pezzo che riassume un po’ tutto ed è anche quello della consapevolezza.
Quando ci siamo parlati per l’uscita di Cristi e Diavoli tutti eravate concordi nel dire che quel disco rappresentasse una sorta di zona franca, quella dove sperimentare cose che singolarmente non avreste fatto. In Futuri possibili c’è un po’ di questo approccio?
In Cristi e Diavoli più che noi stessi portavamo avanti una visione, però è vero che in questo album ho sperimentato di più rispetto ai precedenti, il pezzo con Ketama ricorda un po’ le atmosfere di Rehab se vuoi. Non ci avevo pensato, ma effettivamente quel disco mi ha insegnato ad avere più leggerezza nel modo di produrre, di approcciarmi alla scrittura.
Da persona non di Roma l’idea che ho sempre avuto e che mi affascina è che sia una città scanzonata ma a cui resta sempre attaccata una patina malinconica, decadente. Un contrasto che ho ritrovato molto nei pezzi.
Roma alla fine in qualche modo rientra sempre nella mia poetica. Devo dire che questa volta nei testi non la sento tantissimo perché c’è una dimensione più casalinga, c’è meno la strada. Però effettivamente nelle atmosfere qualcosa c’è, quel gusto un po’ dolce amaro un po’ rimane. Forse c’hai preso.
Sarebbe suonato diversamente se lo avessi fatto in un’altra città?
È difficile per me scrivere un disco in un’altra città. Dovrei avere un altro posto che sento casa.
Non sei quindi uno di quelli che scrivono ovunque.
Tendenzialmente no, la visione d’insieme deve venire da un luogo in cui mi sento a mio agio e in cui posso prendermi il mio tempo.
Tra poco riprenderai anche coi live.
Sì, stiamo già facendo le prove e anche stavolta sarò con la band. Abbiamo cercato di fare una cosa in famiglia, come piace a noi. La cosa più difficile sarà scegliere quali pezzi fare, perché tra i dischi miei, robe di Polaroid e varie ed eventuali iniziano ad essere parecchi.
Se penso che sono passati quasi 10 anni da quel disco… Non credo ne siano usciti altri di così generazionali da allora.
Era davvero un bel disco, sì, un pezzo di cuore importante sia per me che per Carlo. Eravamo giovani e poco preparati a quello che poi sarebbe successo, ma entrambi lo ricordiamo con grande affetto. Anche se oggi alcune cose le scriverei diversamente.
Polaroid per me è uno di quegli album irripetibili e forse è anche giusto che rimanga in qualche modo cristallizzato lì.
Sono assolutamente d’accordo. Col senno di poi sono contento che non abbiamo fatto altro. Non che sia contrario alla reunion, ma quando hai un solo disco che rimane così iconico non ha troppo senso fare altri progetti. Rivedere insieme i Club Dogo è figo perché hanno dieci album, nel caso mio e di Carlo è bello che quella roba rimanga lì. Parlava di un periodo particolare, di una generazione in particolare e noi eravamo nell’età giusta per raccontarla.
Credo che chiunque della nostra generazione abbia ascoltato Polaroid leghi almeno una canzone a un momento di quella vita che non torna.
Ma pure io quando me le risento ho dei ricordi molto nitidi e belli, di una vita completamente diversa in cui lavoravo, frequentavo altre persone e che difficilmente scorderò. Le canzoni ogni tanto fanno questo scherzo…