Ketama126: «Nella trap ho dato tutto: a 33 anni non competo con me stesso»
Venerdì è uscito “33”, il nuovo album dell’artista romano: con lui abbiamo parlato di come è cambiata la sua vita negli ultimi 10 anni e di quanto, nonostante tutto, Roma rimanga sempre quella mamma da cui non riuscirai mai a staccarti

Ketama126
I 33 sono notoriamente anni importanti: sono quelli di Cristo, della morte e della rinascita. Per Ketama126, i 33 sono stati gli anni della maturità, in cui – come ci racconta in questa intervista – ha fatto il disco che ha sempre voluto fare ma che ancora non si era concesso e che ha come unica bussola quella tradizione romana – sacra e profana, gotica ma allo stesso tempo caciarona (per citare il brano con cui è iniziato questo suo nuovo viaggio) – resa grande da nomi come Franco Califano, Gabriella Ferri e Lando Fiorini e rimaneggiata a modo suo, unendo autenticamente lo stornello al rap e facendo ancora una volta da anticipatore come lo era stato 10 anni fa, portando il punk nella trap.
Il rap e lo stornello, dicevamo: due mondi più vicini di quanto si possa pensare, perché entrambi vengono dalla strada. Quella che Ketama126 ha sempre vissuto e raccontato anche nei suoi lati più squallidi, sporchi ed estremi in dischi come Rehab, Ketam-City e Oh Madonna, e che ora narra con quella vena malinconica e agrodolce di uno stornellatore consumato sotto una Luna Chiara, con un teschio in una mano e un fiore nell’altra, come a simboleggiare le sue due anime. Con lui abbiamo parlato del perché ha smesso di fare trap, di come è cambiata la sua vita negli ultimi 10 anni e di quanto, nonostante tutto, Roma rimanga sempre quella mamma da cui non riuscirai mai a staccarti.
L’intervista a Ketama126
Ti sei chiesto come lo prenderanno i fan abituati a sentirti fare un’altra cosa?
Sì, me lo sono chiesto ma alla fine non mi interessa molto di cosa pensano gli altri. Io sono contento di aver fatto un disco così, e non so se mi sarei divertito a fare un altro disco solo rap.
Un po’ di tempo fa hai detto di non poter fare trap meglio di come l’hai già fatta: questo pensiero ha influito su un disco come 33?
Sì. A 33 anni non volevo mettermi a competere con me stesso. Quando avevo 25 anni facevo trap perché per me non era solo un genere, ma uno stile di vita. Era un qualcosa che vivevo nel quotidiano. Cambiando quello stile di vita mi è venuto naturale anche cambiare lo stile di musica, facendo quella suonata, che poi in realtà ho sempre desiderato fare. La trap per me è sempre stato un compromesso per fare una roba cantata, che suonasse bene, ma senza spendere una lira. Ora che ne ho la possibilità mi sono concentrato solo sulla musica e ho lasciato perdere altre cose.
Come hai capito che questo disco stava prendendo forma?
Il pezzo da cui è partito tutto è stato Un teschio e un fiore. Da mesi ero bloccato sulla trap, avevo pure dei beat belli, ma non riuscivo a scrivere niente di interessante. Invece quella produzione mi ha tirato subito fuori una serie di cose che volevo dire, e mi ha fatto capire che sarebbe stata quella la via da seguire. Il testo per me parte sempre dalla musica, e mi sono reso conto che non riuscivo più a scrivere sulla trap.
Con La Caciara senti di aver anticipato un trend?
Forse sì, però anche nella trap la mia forza è sempre stata quella di anticipare i tempi e fare le cose prima di tutti gli altri. Rehab ha avuto successo perché sono stato il primo a portare in Italia le chitarre elettriche sopra la base trap. Spero di aver anticipato i tempi anche con questo album, anche se nel mondo il folk sta tornando ormai da un po’. Guarda Peso Pluma in Messico o Bad Bunny a Porto Rico. Solo noi italiani stiamo ancora lì a copiare gli americani, invece dovremmo capire che abbiamo una cultura musicale enorme e spingerla, specialmente all’estero.
Beh, Rehab è stato ed è un culto. Non credo sia più uscito un disco come quello negli anni successivi. Sporchissimo, se penso al video di Lucciole…
Quello è uno dei video più pesanti che abbia mai visto, non so come possa essere ancora su YouTube, c’era qualsiasi tipo di droga in quella canzone. Riguardandomi indietro ho pensato che ci fosse un periodo giusto per fare qualsiasi cosa. Se io adesso a 33 anni cercasse di imitare il me di 20 anni risulterei ridicolo. Quando sei più giovane non pensi all’eredità che lasci: con questo disco volevo fare qualcosa di cui andare fiero anche tra 20 anni, tipo che se a 60 anni voglio fare un concerto, questo album lo posso cantare, a differenza di Rehab.
Mentre con gli altri album non è così?
No, ma già adesso preferisco cantare questo disco. Non rinnego niente del mio passato, sono ancora un bel figurino quindi non mi vergogno a cantare Rehab: però immaginami coi capelli bianchi e le rughe a cantare “sesso, droga, amore” e a cantare invece 33…
Ecco, come si sta a 33 anni? Un’età decisamente simbolica…
Bene, per me è stato il momento in cui sono diventato più maturo.
Nell’Intro dell’album dici che “il tempo speso male non te lo rimborsa nessuno”: tu senti di averlo fatto in passato?
Non credo. Io sono uno ossessionato dal tempo, soprattutto ora che non sono più un ragazzino ho sempre meno pazienza per sopportare cose o persone che non mi stanno simpatiche. Non voglio più fare compromessi. Non voglio uscire una sera perché c’è gente che mi sta sul cazzo? Un tempo ci sarei uscito comunque, oggi preferisco starmene a casa da solo. Prima parlavo molto di droghe perché stavo tanto in giro e lo facevo da persona che non ama la socialità, quindi se abusavo di tante droghe forse era anche per quello, per sopportare una cosa che non mi andava troppo di fare. Ora se il gioco è cattivo non riesco a fare buon viso.
Nell’album non ci sono feat.
Quella è stata una scelta quasi obbligata perché non mi veniva in mente nessuno che fosse adatto a questo tipo di musica.
Neanche i ragazzi della Lovegang?
Franco è l’unico con cui ho fatto una canzone, ma non l’ho ancora fatta uscire. Ecco, lui è quello che più di tutti può avvicinarsi a queste sonorità, anche se spero che molti rapper ascoltando questo album si rendano conto che il rap e il mondo dello stornello in realtà sono più vicini di quanto possano pensare. Entrambi sono infatti due generi che vengono dalla strada.
In questi ultimi anni hai fatto tantissimi viaggi, ma mi sembra che 33 sia il tuo disco in assoluto più romano.
Assolutamente, ma paradossalmente questa è una conseguenza dei viaggi che ho fatto. Viaggiando mi sono reso conto che le culture locali e le tradizioni popolari sono quelle che voglio scoprire davvero, e quando succede ho gli occhi e le orecchie pieni di gioia. Vorrei che fosse la stessa cosa con la mia musica.
Roma è stata più mamma o matrigna per te?
Roma è una città che sa essere molto cattiva quando vuole. È dark, oscura, sempre divisa tra sacro e profano. È una città spietata: qui sono successe le cose più brutte, guarda anche solo il caso di Emanuela Orlandi. Lo sappiamo tutti com’è andata, ma se venisse fuori la verità una volta per tutte uscirebbero troppe schifezze. Dall’altra parte per me Roma è mamma tutti i giorni perché ha abbracciato la mia malinconia. È come tornare a casa da tua madre che ti fa mangiare, ti coccola, ti fa la carbonara: magari pensi che vuoi andartene per i fatti tuoi, ma sai che alla fine resterai lì perché è il luogo in cui non ti senti mai fuori posto.