Il sogno americano dei King Hannah tra appunti e storie dal finestrino di un van
Il duo inglese torna con il secondo album “Big Swimmer”: un disco cinematografico influenzato dalla loro esperienza in tour. Li abbiamo incontrati per farci raccontare la genesi del nuovo progetto, in uscita domani 31 maggio, e il loro legame con gli Stati Uniti
Esistono connessioni difficili da comprendere. Album che non ha senso star troppo a spiegare perché si raccontano da soli. Li ascolti e ti ritrovi catapultato all’interno delle singole storie, senza introduzioni. Non devi nemmeno compiere lo sforzo interpretativo, ma solo lasciare che le immagini fluiscano nella tua mente. Ci sono artisti che lo fanno inconsapevolmente e altri, come Hannah Merrick e Craig Whittle, che lo adottano come tratto distintivo. I King Hannah avevano già stupito tutti con l’acclamato esordio del 2022 (I’m Not Sorry, I Was Just Being Me) e con Big Swimmer aderiscono ancora di più al loro personalissimo filone narrativo semi-autobiografico.
I due sono dei personaggi ricorrenti delle loro stesse canzoni. Potrebbero quasi sembrarne i protagonisti ma, come detto, non ci sono dubbi. Il soggetto principale qui è lo sfondo. Quegli Stati Uniti sognati e suonati all’esordio, diventati molto più nitidi in questo secondo album dopo averli vissuti e attraversati.
Pensando alla giovane carriera dei King Hannah viene in mente per contrasto Robbie Williams. La popstar, come la maggior parte degli artisti britannici, e come raccontato molto bene nella docuserie Netflix, ha sempre avuto il cruccio dell’America. Tuttavia, non è mai riuscito a ottenere negli States lo stesso enorme successo ottenuto in patria. E stiamo parlando del cantante col maggior numero di BRIT Awards. Con i King Hannah la situazione è completamente ribaltata. Nel regno Unito non passano molto in radio e faticano a riempire locali. Vuoi per le chitarre ruvide, per le influenze shoegaze o per il tocco folk di brani come John Prine On The Radio. Nel resto d’Europa e in America invece sono apprezzatissimi, anche da Sharon Von Etten che ha voluto collaborare con loro pur non avendoli mai incontrati dal vivo.
“On the road”
Com’è possibile che un duo di Liverpool, la cui cantautrice è addirittura originaria del Galles, sia così legato all’immaginario sonoro e culturale degli Stati Uniti? La spiegazione è insita in quei fili invisibili che solo attraverso la musica possono dipanarsi. «Cause I feel good when I am in New York» canta Hannah nel ritornello della seconda traccia del disco. Dai quadri cinematografici che popolano l’album, al netto di uno spoken word che ricorda Florence Welch degli inglesi Dry Cleaning (che giurano di non ascoltare), si percepisce lo stesso fascino e i medesimi colori che emergono dagli strumenti. Big Swimmer è stato fortemente ispirato dal lungo tour che i King Hannah hanno compiuto negli USA. Il classico viaggio che ti cambia la vita, anche se nel caso del duo, le idee erano abbastanza chiare fin dall’inizio.
Incontrando dal vivo Hannah e Craig questa sensazione è confermata in pieno. Il van con cui hanno attraversato gli States da New York a San Francisco è stato il punto di partenza per un disco che è persino più spontaneo del debutto, cosa rara per un sophomore. Tutto ciò che hanno visto dai finestrini e che è stato appuntato nel diario della cantautrice è finito nelle 11 tracce. Big Swimmer è un disco audace, con suite bellissime che sforano i sette minuti, come la stupenda Suddenly, Your Hand o come Somewhere Near El Paso, la cui chitarra elettrica ha l’odore della frontiera. Non è un caso che uno dei riferimenti principali per la band sia proprio una delle poche artiste britanniche che ha lavorato negli Stati Uniti: PJ Harvey.
Con i King Hannah poi è impossibile non finire a parlare di cinema durante un’intervista, perché è insito nel loro modo di intendere la scrittura e la musica. A fare il resto è la chimica che li lega nella vita oltre che nell’arte. Un’altra connessione che, sentendoli parlare, sembra la cosa più naturale del mondo. E allo stesso modo dà l’impressione di essere nato il loro secondo album, quello che per la norma non scritta, soprattutto dopo un esordio positivo, dovrebbe essere il più difficile. Al contrario Big Swimmer, pur nella sua complessità stilistica, è semplice. Come quelle scene di un film, apparentemente minimali e senza troppi dialoghi, che rimangono impresse in testa assumendo ogni volta un significato più profondo.
L’intervista ai King Hannah
Quindi è vera la leggenda per cui il secondo album è il più complicato?
Hannah Merrick: Ne abbiamo registrati solo due, quindi è difficile dirlo (ride n.d.r.).
Craig Whittle: Proprio perché in tanti sono convinti di questa cosa, credo che noi siamo stati molto bravi nell’evitare di farci influenzare. Eravamo talmente eccitati e pieni di idee che non abbiamo mai sentito la pressione. Avevamo ben chiara la strada che avremo intrapreso a livello di sound e identità in questo secondo lavoro.
Quindi nessuna difficoltà?
H: La sfida è sempre quella di scrivere la cosa migliore possibile in un lasso di tempo limitato. Sai che, entro quel periodo il disco deve essere pronto. In questo senso siamo stati avvantaggiati dal fatto che abbiamo avuto più tempo del solito a disposizione.
Il primo album (I’m Not Sorry, I Was Just Being Me) era quasi autobiografico, Anche Big Swimmer racconta eventi a cui avete assistito, ma è ambientato in America. Qual è il vostro primo ricordo di quell’esperienza?
C: È difficile sceglierne uno perché abbiamo trascorso sei settimane negli Stati Uniti e sono molto grandi e diversi. Per ogni città ho una sensazione differente. New York non ha nulla a che fare con San Francisco e tantomeno col Texas. Ecco, una cosa che mi viene in mente è la marea di tempo passato nel sedile posteriore del van. Queste strade lunghissime immerse nel nulla. Ho letto moltissimo durante gli spostamenti.
H: Io penso subito alle periferie e alle aree suburbane. Le grandi ville e tutto questo genere di cose mi piacciono molto, però mi hanno colpito tutti quei luoghi lasciati al degrado, per certi versi terribili. Immagini che mi sono rimaste in testa e che sono completamente opposte all’idea comune che si ha degli Stati Uniti.
Il tour negli States ha influenzato il vostro disco a tal punto che viene da pensare che abbiate scritto i brani in van, nel corso dei lunghi viaggi da una città all’altra.
H: Sembrerà strano, ma li abbiamo scritti dopo, quando siamo tornati in Inghilterra. Durante il periodo passato in America però, quando ho assistito a qualche scena particolare, oppure ho visto qualcosa che ha attirato la mia attenzione, ho appuntato tutto nel mio diario per non perdere nessun dettaglio. Due o tre canzoni sono nate così.
A tal proposito c’è un brano che mi ha colpito: Milky Boy. È vera la storia che racconti nella canzone?
H: Sì, questo è proprio uno di quegli episodi a cui facevo riferimento. Eravamo a Philadelphia, avevamo appena parcheggiato il van e, a un tratto, ho visto questo ragazzino scalzo, avrà avuto nove o dieci anni essere minacciato con un martello da un uomo, forse suo padre. Non è stata una bella scena da vedere, anzi per il bambino sarà stato terrificante. Per questo è qualcosa che mi è rimasto impresso e ho deciso di metterlo nel disco. Aveva un’aura quasi cinematografica.
I King Hannah di Big Swimmer suonano molto più ruvidi in alcune parti, con degli ingressi di chitarra elettrica piuttosto heavy che ricordano la coda di Go-Kart Kid (Hell No!). Anche in questo caso c’entrano gli Stati Uniti?
H: Più che dall’esperienza in America, più in generale, quel suono è derivato dall’esibirci dal vivo. Noi amiamo creare dei momenti più intensi, in contrasto a quelli più calmi. Il nostro primo album suonato dal vivo in concerto era molto diverso dalla versione in studio. Era riarrangiato in maniera molto più decisa e questa cosa è piaciuta molto al pubblico. Proprio questa risposta da parte degli spettatori ci ha convinto a provare a scrivere un album che suonasse come se fosse eseguito sul palco.
Anche per quanto riguarda il tuo modo di cantare, Hannah, hai sperimentato ancora di più con lo spoken.
H: Sì, probabilmente è il frutto di diversi ascolti che ho fatto durante il periodo di scrittura del disco. Sentivo molto Cassandra Jenkins, Sheryl Crow, Bill Callahan (come dichiara all’inizio di Suddenly, Your Hand n.d.r.) e anche Joni Mitchell.
Un altro artista che nominerei a questo punto è John Prine. Il pezzo che chiude il disco, John Prine on the Radio, è un brano folk e uno dei pochissimi, forse il primo, dove cantate insieme.
H: Devo ammettere che l’abbiamo scoperto purtroppo quando è venuto a mancare nel 2020 e Kurt Vile fece una cover di un suo brano.
C: John Prine era incredibile nel modo in cui riusciva a trasmettere ogni sfumatura della propria umanità. Nelle canzoni c’erano humor e malinconia nello stesso momento.
Tutti artisti statunitensi. Il vostro legame con la Gran Bretagna e la scena di Liverpool, quindi, è ancora un po’ distaccato.
C: Sì, la nostra musica, sebbene per qualche aspetto del cantato possa rimandare a qualche band inglese, è molto diversa nel suono. Forse anche per questo in Gran Bretagna non viaggia molto in radio. Anche per quanto i riguarda i concerti, non abbiamo molte date e non partecipiamo a tanti festival. Evidentemente non gli piacciamo molto. (ride n.d.r.). Però c’è un’altra band che un po’ ci somiglia nello stile, i Mysterines. Loro sono molto più vicini al mondo dei Queen of the Stone Age.
Un’artista britannica che amate però c’è ed è PJ Harvey. Big Swimmer è prodotto da Ali Chant che ha lavorato anche con lei.
H: Siamo stati per due settimane intere nel suo studio a Bristol, era diventato come una casa, e lui è stato fantastico e molto disponibile. Voleva davvero capire cosa volessimo a livello di suono. È una persona molto costruttiva. Aveva tantissime idee ed era molto sicuro di sé nel dirti quale fosse la cosa giusta da fare.
Voi amate il cinema, tant’è che anche in questo disco ci sono dei pezzi solo strumentali, delle brevi colonne sonore. C’è qualcosa che vi ha ispirato anche da quel mondo?
C: Beh, tu hai scritto This Wasn’t Intentional dopo aver visto Aftersun, se non ricordo male.
H: Sì, è vero. Quella canzone parla proprio del film, anche se in realtà non c’è mai un riferimento diretto dal quale si può capire il legame. A me piacciono le opere cinematografiche come Aftersun, con pochi dialoghi e scene semplici che rimangono in testa, come il finale per esempio. Io tento di fare la stessa cosa con la mia scrittura.
Proprio This Wasn’t Intentional, insieme al primo singolo Big Swimmer, vede la presenza di Sharon Von Etten. Com’è nata la collaborazione?
C: Il nostro rapporto con lei è iniziato qualche anno fa, quando lei ricondivise sul suo profilo Instagram Crème Brûlée, uno dei brani del nostro primo EP, scrivendo: “Mi piace un sacco questa canzone dei King Hannah”. Da lì abbiamo cominciato a sentirci sporadicamente. Poi quando abbiamo iniziato a lavorare a questo secondo disco le abbiamo chiesto se potessimo inviarle dei demo. Lei deve averli apprezzati molto perché a pochi giorni dalla consegna dell’album ci ha inviato delle sue parti vocali registrate in un garage da inserire nei due brani che le erano piaciuti di più. L’album era praticamente finito, la sua partecipazione quindi è stata la ciliegina sulla torta.
H: Ancora stentiamo a credere che abbia voluto partecipare. Adesso dobbiamo incontrarla dal vivo prima o poi.
Big Swimmer, tra l’altro, è stata a sua volta una ciliegina finale perché è stata l’ultima canzone che avete scritto. Il videoclip sembra quasi un flashback, con voi due che tornate a suonare in una palestra di un college. Da dove nasce l’idea e che significato hanno i bambini?
C: Volevamo qualcosa di genuino che trasmettesse semplicità. I bambini nel video sono i figli di alcuni amici di famiglia. Mi piaceva l’idea di mostrarli così giocosi, fermi nel tempo a quell’età, mentre dietro di loro ci siamo noi, la band, che continua a crescere di anno in anno. È un modo anche attraverso cui ci siamo immaginati come potremmo essere tra qualche anno. Come sarà suonare avendo dei figli?
H: Per quanto riguarda la palestra, invece, è stata solo una questione di comodità. Non volevamo essere su un palco.
In Big Swimmer vi ponete un interrogativo esistenziale: «When the river is floating and / And the mouth has come to its end / Do you carry on swimming or /Do you jump out and grab your towel?» (Quando il corso del fiume si allarga e si avvicina la foce, continui a nuotare o esci dall’acqua e prendi l’asciugamano?). Voi che fareste?
H: Bella domanda. Io continuo a nuotare…tu?
C: Dipende dalla corrente…anzi, no. Tu mi trascineresti comunque prendendomi per mano (ride n.d.r.).