Interviste

Makaya McCraven, jazz senza aggettivi: «I generi esistono finché non sono essi stessi a cambiare»

Il talentuoso batterista e produttore di Chicago ha appena pubblicato il nuovo album “In These Times”: l’abbiamo intervistato in attesa di vederlo live a Club to Club il 5 novembre

Autore Piergiorgio Pardo
  • Il26 Settembre 2022
Makaya McCraven, jazz senza aggettivi: «I generi esistono finché non sono essi stessi a cambiare»

Makaya McCraven (foto di Sulyiman Stokes)

Tra le nuove uscite più significative di questo ultimo scorcio di settembre, sicuramente non è da dimenticare In These Times, l’ultima ambiziosa e intensa prova del compositore, batterista e producer di stanza a Chicago, ma parigino di nascita, Makaya McCraven, appena pubblicata dalla International Anthem.

L’album segna un ulteriore passo in avanti rispetto ai già notevoli standard qualitativi raggiunti nel 2018 dall’ormai classico Universal Beings. Nel frattempo, Makaya ha lavorato a un’espansione di quel disco, chiamata Universal Beings E&F Sides (International Anthem, 2020) e, subito prima, a un interessante album in duo con il trombettista francese Antoine Berjeaut (Moving Cities, International Anthem, 2019) e a una reinvenzione devota, ma anche modernista, di pagine del repertorio di Gil Scott-Heron (We’re New Again, XL Recordings, 2020).

Dal nomadismo spirituale del disco con Berjaut e dallo studio del repertorio di Gil Scott-Heron sono giunti a Makaya nuovi impulsi creativi. Così come l’opportunità di dare ulteriore profondità ai significati artistici, umani e culturali del suo percorso. Le “facciate” E ed F di Universal Beings hanno segnato invece una sperimentazione nella direzione di quella che è stata definita organic beat music. A caratterizzarla sono da un lato l’impulso ritmico come motore di tutto il processo creativo, dall’altro l’importanza dei metodi della improvvisazione e della composizione istantanea come modalità per giungere ad una partitura finale.

Ascoltando il nuovo album di Makaya McCraven appare chiaro come tutta la ricerca musicale e le attività di questi anni abbiano avuto anche il ruolo di preparare l’exploit attuale. Nel nuovo disco a condividere con il titolare una esperienza di libertà e consapevolezza che ha il jazz come presupposto necessario, ma nello stesso tempo lo trascende, c’è un ensemble non a caso eterogeneo.

Accanto ai jazzisti come Greg Ward e Marquis Hill, figurano, come di consueto, musicisti di altre aree, come Jeff Parker dei Tortoise alla chitarra, Junius Paul dell’Art Ensemble of Chicago al basso e l’arpista Brandee Younger. Fondamentale è anche il ruolo dell’orchestra, i cui arrangiamenti sono pensati non solo come arricchimento della pasta sonora, ma anche In funzione melodica e ritmica, con sviluppi inediti rispetto alla precedente produzione di McCraven.

In attesa di applaudire Makaya McCraven il 5 novembre, in occasione del Club to Club di Torino, quella che segue è la prima parte di una lunga e cordiale intervista, di cui i lettori potranno trovare il seguito sul numero di settembre di Billboard Italia.

In These Times è un disco molto libero, aperto rispetto ai generi. Tuttavia nello stesso tempo sembra individuare una sorta di continuità con quello che si potrebbe definire “suono di Chicago”.

Il percorso con la International Anthem, l’etichetta di Chicago che mi pubblica, coincide sostanzialmente con una svolta per la mia carriera. Così come è stato importante l’incontro con Jeff Parker, grazie a un compagno di università appassionato dei Tortoise, che me li ha fatti conoscere. Ci sono delle affinità fra me e i tanti musicisti che ho incontrato a Chicago. Non saprei dirti se queste affinità definiscano un suono o un genere. Ma mi piace pensare che, almeno a livello di gusto, possano esserci delle costanti in comune fra me e le persone con cui suono già da un po’.

Cosa determina queste costanti secondo te?

È un fatto naturale. Nasce dalla prassi di suonare insieme e di avere la possibilità, che è più che altro logistica ed economica, di farlo in un certo posto. Si parla di Kamasi Washington e di un suono di Los Angeles, poi di Nubya Garcia e di una scena londinese. Il punto è che i musicisti rimangono dove c’è la possibilità di vivere del proprio lavoro e di fare musica a un livello qualitativo che gli si confaccia. Altrettanto ovviamente, suonando insieme sviluppano linguaggi comuni, mi sembra inevitabile.

D’altra parte, come musicista mi sembri abbastanza refrattario a generi ed etichette…

I generi sono fatti per cercare di capirsi, per dare un nome alle cose. A volte possono anche essere oggetto di discussioni divertenti fra appassionati di musica. Niente, comunque, che abbia davvero a che fare con la musica in sé. I generi esistono finché non sono essi stessi a cambiare, addirittura ad estinguersi e diventare generi nuovi, contraddicendo o rifondando da zero le poetiche precedenti.

Makaya McCraven - 3 - foto di Nate Schuls
Makaya McCraven (foto di Nate Schuls)
Tuo padre Stephen è un quotato jazzista e tua madre Ágnes Zsigmondi una cantante di folk-rock ungherese insieme ai Kolynda. Ti ha influenzato l’eterogeneità fra le loro rispettive aree d’interesse e di espressione?

Aggiungi il fatto che da adolescente ascoltavo Led Zeppelin e Jimi Hendrix. Certamente ho imparato moltissimo da loro. I loro ambiti sembrerebbero diversissimi, ma a un certo livello di profondità le differenze sono fatte per dialogare e creare sintesi. Il rapporto tra la musica e le culture dei popoli è un dono fatto all’uomo, che dovrebbe essere irrinunciabile. E la musica è fatta per unire, non per dividere.

Mi sembra un discorso che guarda a integrazione e pacifismo…

Certamente sì, il dialogo e la libertà, ma anche l’essere sempre consapevoli che, come uomini, abbiamo tutti una medesima origine sono già pensieri fondamentali nelle direzioni che dici. La percussione nasce contestualmente a quella comune origine.

Ci sono delle connessioni fra la tua musica e la cultura hip hop?

Sì, per le comuni origini afroamericane. Ma anche per l’importanza che ha l’elemento percussivo nell’hip hop, un’importanza così grande che anche la parola diventa ritmica, come per osmosi. Ma la cosa più affascinante per me è l’uso dell’elettronica per ottenere nuovi suoni, nuove ritmiche, il mondo dei sample. I jazzisti di ultima generazione frequentano questo tipo di territori in modo del tutto naturale. Per me è stata ed è ancora un’opportunità continua di coltivare la mia curiosità di musicista.

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