Il viaggio dei Mamakass dai Coma Cose a Ghali: «Un incrocio fra emotività e razionalità»
Conosciamo meglio Fabio e Carlo, il duo di produttori che sta dietro al sound di tanti artisti – indie e mainstream – molto diversi l’uno dall’altro
Nel corso della nostra conversazione usano moltissime volte la parola “progetto”. Per Fabio Dalè e Carlo Frigerio, meglio conosciuti come Mamakass, il loro mestiere di produttori sta essenzialmente in questo: sviluppare una progettualità quanto più spontanea con l’artista che richiede il loro tocco. Dopo essersi fatti largo all’interno del mondo “indie” (soprattutto grazie al sodalizio duraturo con i Coma Cose), non si sono preclusi nessuna sfida artistica, dalle sonorità sofisticate di Raphael Gualazzi a quelle mainstream di Ghali. Oggi, forti anche della recente esperienza sanremese con il lavoro fatto su Fiamme negli Occhi, i Mamakass guardano ai loro prossimi capitoli professionali con quella curiosità e quell’entusiasmo che – assicurano – sono gli ingredienti fondamentali del loro percorso.
Voi avete cominciato a muovervi nel mondo della musica come band (pubblicando anche un EP nel 2012), per poi diventare produttori “a tempo pieno”. Com’è avvenuto questo passaggio?
Fabio Il nostro posto nel mondo della musica è frutto di un percorso quasi casuale. Io e Carlo ci siamo conosciuti perché suonavamo in un progetto elettronico. Dalle ceneri di quel progetto abbiamo poi fatto quell’EP, Notte Scura. Poco dopo ci è stato proposto da altri progetti artistici di dare il nostro suono, di comporre musica insieme. Dal basso, questa cosa è cresciuta fino a diventare un lavoro a tempo pieno. Non è stata una ricerca: noi facciamo musica e il fato ha voluto che fino ad oggi si sviluppasse più quel lato.
Fra le vostre numerose collaborazioni possiamo dire che quella più organica e continuativa è quella con i Coma Cose. Come mai proprio con loro avete dato vita a un sodalizio così stretto?
F Anche quella è una cosa nata in maniera molto spontanea. Nel 2015 abbiamo conosciuto Fausto Lama, che ai tempi aveva un suo progetto che si chiamava Edipo. Apparteneva un po’ alla cricca di Dargen D’Amico, con cui avevamo fatto dei tour. Ci chiese di provare a fare della musica insieme e noi accettammo. Un giorno – alla sesta o settima canzone che buttavamo giù – abbiamo pensato che il brano su cui lavoravamo sarebbe stato bene con una voce femminile. Lui da poco frequentava Francesca (California, ndr). Buttammo dentro la sua voce e venne fuori una cosa magica, perfetta. Piano piano il progetto ha preso piede e lei ha iniziato a dire la sua anche sulla scrittura, fino al ruolo centrale che ha oggi.
Quest’anno c’è anche stata la vostra “prima volta a Sanremo”, con Fiamme negli Occhi, che peraltro ha avuto un ottimo successo a livello di pubblico. Voi avete avuto un ruolo attivo nella scelta del pezzo da portare al Festival?
F Sì, il brano che è stato proposto fa parte di un pacchetto di pezzi a cui abbiamo lavorato l’anno scorso in periodo lockdown. Quando è arrivata la possibilità di Sanremo, in maniera compatta abbiamo scelto insieme a Fausto e Francesca quel pezzo. Ci sembrava perfetto per quel tipo di “contenitore”, perché era rappresentativo del progetto e aveva anche caratteristiche di “easy listening” che andavano bene per Sanremo.
Allargando lo sguardo ad altri artisti italiani, voi avete prodotto interamente l’ultimo album di Galeffi, Settebello. Com’è nata questa sinergia?
F L’abbiamo conosciuto a un camp di scrittura della Warner Chappell, il nostro editore. Viene organizzato ogni anno in posti fighi: in quel caso era in un castello in Piemonte. Quotidianamente vieni messo insieme ad altri musicisti e autori. Un giorno ci è capitato di fare una session insieme a Marco (nome di battesimo di Galeffi, ndr) e abbiamo scritto una canzone. In quell’occasione abbiamo capito che c’era feeling artistico. L’anno dopo ci ha contattato per fare l’album e abbiamo fatto un’esperienza simile a quella del camp: siamo andati in una casa sul litorale laziale, stando insieme per una decina di giorni.
Nell’album c’era un pezzo che mi ha colpito in particolare per il suo sapore jazz: America. Ricollegandomi anche al lavoro che avete fatto con le sonorità “sofisticate” di un altro artista che è Raphael Gualazzi, vorrei chiedervi: questo mondo sonoro un po’ più ricercato da dove arriva fra le vostre esperienze e i vostri gusti musicali?
Carlo Noi cerchiamo sempre qualcosa di un po’ approfondito. Quel brano in particolare deriva anche dai nostri ascolti. Lavorare con Raphael è stato bello perché abbiamo unito la sua parte molto jazz alla nostra parte più estroversa e sperimentale. Sono colori musicali che ci piacciono, che riusciamo in qualche modo a utilizzare ogni tanto.
La vostra firma come produttori compare anche all’interno di un album molto diverso e molto mainstream a livello di pubblico, cioè DNA di Ghali. Come vi siete adattati al suo mondo musicale?
C Quel brano (22:22, ndr) è stato frutto di una session che abbiamo fatto con Ghali e altri autori. Abbiamo cercato di entrare noi in quel mondo, portando la nostra visione e adattandola al suo modo di vedere la musica.
Invece, parlando di artisti emergenti, avete all’attivo anche delle collaborazioni con Voodoo Kid. Quando vi trovate a lavorare con un artista “giovane” o comunque meno affermato di quelli che dicevamo prima, quali sono le doti che apprezzate in particolare?
C Quando lavoriamo con qualcuno, ci piace capire quante parti artistiche e musicali l’artista ha da dare. Con Voodoo Kid è stato bello perché lei è molto in gamba e talentuosa. Con lei abbiamo arrangiato tre brani. Ci deve piacere l’artista, quello che dice e quello che scrive.
F Il nostro atteggiamento è quello di fare musica con persone dal cui “match” può venir fuori qualcosa di interessante. Sicuramente lo stimolo è una componente fondamentale.
In definitiva, voi nel vostro curriculum come produttori avete collaborazioni con artisti molto diversi fra loro. Questa vostra versatilità come la interpretate?
F Tutto è molto naturale, deriva dalla nostra curiosità di fare tutta la musica che ci intriga. Senza appropriarci culturalmente di cose che non riusciremmo a reggere. È un incrocio fra emotività e razionalità. I nostri ascolti sono molto variegati, dal metal al jazz. Dopodiché ci mettiamo addosso il “camice” e valutiamo quello che abbiamo buttato giù, cercando di dare un senso rispetto a ciò che stiamo facendo in quel momento.