A scuola di artist management con Mattia Zibelli
Il successo oggi per un artista? Durare nel tempo. Parola del manager di Baby K e Fred De Palma (fra gli altri), che in questa nuova puntata di Power Players ci racconta visione e approccio di un mestiere per il quale «non esiste una scuola»

Mattia Zibelli
È sbagliato giudicare un artista solo sulla base delle numeriche, ma Roma-Bangkok di Baby K con Giusy Ferreri è stata una vera pietra miliare nella storia delle classifiche musicali italiane degli ultimi dieci anni: primo brano italiano a superare i 100 milioni di visualizzazioni su YouTube, singolo di maggior successo del 2015, 64 settimane consecutive in classifica, disco di diamante a quattro anni dall’uscita (solo altri quattro singoli hanno avuto questa certificazione nell’epoca delle classifiche FIMI). A lavorare da dietro le quinte a questa straordinaria “case history” di successo c’era anche il manager Mattia Zibelli, fondatore di MZ Management.
Poco dopo Mattia Zibelli assisterà all’esplosione – anche internazionale – del fenomeno Fred De Palma, per citare un altro protagonista delle classifiche con cui lavora da tempo, alternando fasi di grande successo ad altre di fisiologico riadattamento del progetto. E non disdegna di lavorare con artiste più emergenti, come per esempio Nahaze.
La sua visione manageriale poggia su pochi, chiari punti fermi: il vero successo per un artista è entrare nel cuore della gente e durare nel tempo, master ed edizioni devono essere di proprietà, le partnership con i brand sono ben accette ma devono essere oculate. E non esistono tormentoni estivi, ma solo hit. Abbiamo intervistato Mattia Zibelli per questa nuova puntata della rubrica Power Players.
L’intervista a Mattia Zibelli
Tu vieni dal mondo delle etichette: hai cominciato con la Best Sound di Franco Godi e proseguito con la Newtopia, per poi diventare manager a tutti gli effetti. Raccontaci questa parte della tua carriera professionale.
Ho iniziato nel 2001, avevo circa vent’anni. A quel tempo la Best Sound era molto rilevante grazie ad artisti come Articolo 31 e Gemelli DiVersi. A capo dell’etichetta c’era Franco Godi, produttore e manager. Quella è stata una grande scuola, perché il vantaggio di quel contesto era avere gli artisti “in casa”: gli studi erano di proprietà (esistono ancora in via Bertini a Milano), così come edizioni e master. Era come un piccolo fortino al cui interno si faceva tutto.
All’inizio facevo un po’ il ragazzino tuttofare. Ho fatto poi una gavetta interna fino a diventare label manager, cominciando a seguire anche il progetto solista di J-Ax. In quel periodo ho imparato tutto quello che c’era da imparare, da come si saldano i cavi a come si gestiscono le edizioni, ma soprattutto a stare vicino agli artisti.
A un certo punto riusciamo a firmare Fedez, che era ancora un emergente ma con grandi potenzialità. Aveva una grande stima per J-Ax, così nasce un bel gruppo. Nel 2014 loro due escono per creare la Newtopia e mi chiedono di seguirli. Faccio un anno in Newtopia, dopodiché nel 2015 invece comincia la mia avventura come manager.
Non c’è una scuola per diventare manager: c’è chi viene dalla discografia, chi dal publishing, chi dalla musica stessa. A far durare il rapporto con un artista, che è la cosa fondamentale, sono due cose: la trasparenza e la capacità di gestione.
Oggi c’è molta discussione – anche da parte degli artisti stessi – sul significato della parola “successo”. Per te cos’è il successo di un artista? Come ci si arriva e come si mantiene nel tempo?
Il successo oggi è durare nel tempo. L’unica vera cartina al tornasole è il pubblico. Se guardiamo le varie classifiche – da Spotify a TikTok – nel corso degli ultimi anni, le canzoni durano molto poco. Per questo per noi è molto importante la gente. Con la tecnologia di oggi, chiunque può produrre una traccia che potenzialmente può andare in classifica. Questo non mi preoccupa: mi spaventa invece quando la gente non è più legata alla tua musica.
Quello che noi facciamo è lavorare in prospettiva, senza guardare troppo l’immediatezza delle classifiche.
Per esempio con Fred De Palma c’è stato un periodo di grandi successi seguito da una fase di riadattamento. Qualche mese fa ci siamo messi in studio (Fred è un ragazzo molto produttivo, scrive tanto) e tutti i provini che aveva erano forti, ma sentivamo che mancava qualcosa, cioè un linguaggio per andare dritto sulla gente. Quindi abbiamo “svuotato” i provini, liberi da preoccupazioni di classifiche ed eventuali candidature a Sanremo, e lui si è rimesso al lavoro. Abbiamo pubblicato serenamente, e lui oggi ha due pezzi in classifica (Barrio Lambada e Sexy Rave feat. Baby Gang, ndr).
In questo riadattamento di Fred De Palma c’entra anche l’ultimo posto a Sanremo 2024? Come si può far tesoro di un’esperienza del genere per ricalibrare il proprio progetto artistico?
Un errore che si può fare è pensare di andare a Sanremo per favorire una ripartenza della carriera, come succedeva in passato. Oggi non è più così: Sanremo premia chi già sta funzionando. Quello che io suggerisco agli artisti è semplice: capire quando è il momento giusto per andarci.
Il Sanremo di Fred è stato molto stressante, non solo per la classifica, e ci siamo resi conto che non era il momento giusto. Lui stesso ha poi ammesso che in quel periodo non si sentiva del tutto a fuoco. Come è normale che sia, lui ha subìto il confronto con la classifica, ma ne è uscito forte, perché è un artista che ha la sua esperienza. Così è iniziato un bel giro di boa, e lui ha voluto subito tornare in studio. Da lì abbiamo ricostruito.
Nell’immaginario collettivo, artisti come Baby K e Fred De Palma sono molto legati a un’idea di tormentone estivo. Ma immagino che tu ti sforzi di evitare una simile semplificazione, no? E come mai, secondo te, finora non c’è stata ancora la hit dell’estate quest’anno?
Nel caso di Baby K, esiste certamente un prima e un dopo Roma-Bangkok. All’epoca Spotify non era come adesso: era meno presente sul mercato italiano. Nei primi 15/20 giorni dall’uscita, il pezzo non funziona e riceve solo commenti negativi, c’è molto hating sul progetto. A un certo punto però il successo parte dal basso: è la gente che “premia” la canzone, e si comincia a definirlo tormentone. Non c’era la volontà di fare la hit estiva. Roma-Bangkok va ancora oggi, mentre le canzoni più recenti hanno un inizio e una fine, sono legate alla loro stagione.
Quest’anno forse c’è più attenzione sull’artista che sulla canzone. È un approccio di ascolto diverso. E poi, a guardare le classifiche, ci sono tanti pezzi vecchi che tornano: il catalogo rivive. L’ultimo vero tormentone forse è stato Sesso e Samba l’anno scorso. Ma oggi in classifica ci sono artisti come Achille Lauro e Olly, che non fanno tormentoni ma fanno comunque numeri incredibili, perché evidentemente c’è attenzione su di loro.
Forse il concetto di tormentone è molto italiano, perché nel mondo anglosassone esistono le hit e basta.
Per dire: col team di Fred qualche mese fa siamo andati a Madrid per alcune sessioni da cui sono nate Barrio Lambada e Sexy Rave. Abbiamo lavorato con produttori spagnoli molto importanti. Un po’ ingenuamente, abbiamo chiesto se quel materiale avrebbe funzionato per l’estate. Loro ci guardano e dicono: “Ma in che senso?”.
Come dicevamo in una precedente intervista, tu punti molto sulle partnership degli artisti con i brand. Visto che oggi dallo streaming non arrivano introiti sostanziali per gli artisti, dal tuo punto di vista di manager quali sono le vere fonti di reddito?
Per artisti come Fred De Palma e Baby K la parte discografica è ancora importante, perché noi abbiamo investito da subito sul catalogo. Essere proprietario della tua musica – edizioni e master – ti dà una valida forza sul mercato. I brand ovviamente sono molto importanti, su Baby K l’abbiamo visto bene. Siamo riusciti a fare molte sincronizzazioni (ovvero l’utilizzo di un brano in uno spot pubblicitario, ndr).
Il vantaggio è che, oltre alla parte di ingaggio, pagano la parte discografica, e quelle royalties sono nostre. I live si alternano: ci sono momenti in cui vanno bene, altri in cui vanno meno bene. A quel punto magari l’artista decide strategicamente di fare meno performance. Ma la discografia e i brand sono una bella costante, sono le due voci principali per i miei artisti.
Tu segui anche artisti emergenti, o comunque più giovani, come Nahaze. Che tipo di lavoro fai con questi artisti per accompagnare le loro carriere verso il successo?
Da un lato oggi le piattaforme di danno l’opportunità di essere presente sul mercato con poco investimento, dall’altro è sempre più difficile emergere. Ci vuole calma, senza inseguire il momento. Sono pochissime le realtà emergenti che poi durano: in questo senso pensiamo per esempio a Blanco, ma anche allo stesso Olly, che da tanto tempo ci provava, poi è partito con Devastante e non si è più fermato. Mi ispiro più a quel tipo di lavoro che a qualcosa di virale, di immediato. Questo vuol dire che ci vuole più tempo, ma anche più economia per durare.