Interviste

Max Brigante: «In Italia un approccio sbagliato al reggaeton»

Leggi qui l’intervista a Max Brigante, tra il suo lavoro a Radio 105, il rapporto con Elodie (di cui è manager) e il suo primo podcast BIZ

Autore Billboard IT
  • Il29 Giugno 2020
Max Brigante: «In Italia un approccio sbagliato al reggaeton»

Max Brigante

Max Brigante, voce nota di Radio 105, imprenditore, manager (tra gli altri di Elodie) ha lanciato il suo primo podcast, BIZ.

Abbiamo deciso di fare due chiacchiere con lui, per ragionare sulla situazione attuale del mondo discografico. E pure per comprendere come sia possibile unire così tante passioni. Partendo proprio dal suo podcast.

Quando ti è venuta l’idea di realizzarlo?

Era da molto tempo che volevo cimentarmi nel podcast con il gusto di provarci. Faccio la radio da sempre. Ho iniziato con quelle provinciali a 18 anni, ma ancora prima da bambino ci giocavo: avevo bisogno di parlare sulla musica con il mangiacassette in mano. Quando ho iniziato a sentire i podcast all’estero ho sempre pensato che sarebbe stato bello farne uno e poi quando mi sono imbattuto nel podcast di Pablo Trincia un po’ di anni fa mi sono detto: “Voglio farlo anche io”. Ma non trovavo mai il tempo.

Durante il Covid, con qualche momento in più durante il giorno, ho preso una serie di contenuti, ho scaricato un programma sul Mac e ho iniziato a registrare delle parti audio per farle diventare dei podcast. Rispetto alla radio i tempi sono dilatati e quindi anche il tuo rapporto con il microfono e con il ritmo con il quale fai il racconto è molto diverso. È come fare lo stesso sport, ma in un campionato differente e con delle altre regole.

Hai dedicato il tuo primo appuntamento al reggaeton, un genere in cui hai creduto in tempi non sospetti (parliamo del 2000) facendoci programmi radiofonici, compilation e festival. Un atto dovuto?

Di dovuto non c’è nulla, credo. Con questo podcast mi piace aprire delle discussioni, dare degli spunti. Sul reggaeton ho sentito tantissime volte anche da parte di addetti ai lavori una mancanza di cultura nell’approccio. Come dici tu, quel genere io lo vivo dal 2000, perché andando in quelle zone, frequentando un po’ il centro America o il Sudamerica, mi sono reso conto che il reggaeton è come la nostra musica tradizionale. Quella derivazione da villaggio turistico che gli abbiamo dato noi è errata e questa prima puntata va a raccontare un genere che tutti quanti conosciamo, ma cercando di dargli un connotato culturale che secondo me aiuta un po’ la visione.

Tu sei quello che si può definire un artista versatile. Sai stare in video e fare la radio, sei un DJ, produttore, scrittore e ora anche un manager. Dammi un ordine di preferenze su tutte queste cose...

Mi sembra di fare sempre la stessa cosa, cioè avere un rapporto con la musica. A 45 anni posso dirlo: è la cosa che più mi piace. Queste attività che hai citato sono angoli diversi della stessa materia, che mi piace analizzare e scorporare. Oggi se tu mi chiedessi di rinunciare a fare la radio ti direi di no, nonostante io la faccia da sempre. La considero ormai un’estensione della mia socialità. È quasi terapeutica, mi aiuta ad esprimermi e quindi non riuscirei ad abbandonarla. Dico sempre che se domani mi dovessero licenziare, cosa possibile e plausibile, con i mezzi che ci sono oggi comunque la farei da casa mia. Sarebbe uguale: continuerei comunque ad utilizzare quel mezzo per comunicare. Per cui non mi vedo di poter rinunciare a quella cosa lì.

Fare il DJ è veramente una figata. È chiaro che è legato a un aspetto un po’ più ludico, di sfogo della personalità e poi ti permette così tanto di stare a contatto con ciò che funziona che è veramente un lavoro molto utile. La parte del management è una venuta fuori negli ultimi anni, credo un po’ in concomitanza con l’età. Prima fai l’artista, sei un battitore libero, poi a un certo punto accumuli così tante conoscenze che è quasi un peccato non metterle al servizio degli altri. Il management è questo: io non ho una grande struttura con tanti artisti. Sono concentrato con poche realtà che mi piacciono molto.

In questo momento gestisci Elodie, una delle artiste più cool del momento. Com’è farle da manager?

Con lei è paradossalmente semplice. Non so dirti com’è farlo per tanti altri nomi che mi potrebbero venire in mente. Hai ragione: Elodie è una delle ragazze più cool del momento. Però, quello è uno degli aspetti che non insegni: o ce l’hai o non ce l’hai. È la classica materia che non c’è a scuola. Quindi quella è solamente un’inclinazione dell’artista. Lei è una ragazza che ama molto lavorare in team. Rende i lavori intorno a sé più belli, più forti, perché è nella sua mentalità lasciar entrare altri pareri. Oggi quando pensi a lei, pensi a un punto di riferimento anche per le ragazze che vogliono fare le cantanti. Io sono molto felice di questo e pure del fatto che sia di ispirazione per una nuova possibile scena. A me viene facile fare il manager.

Perché?

Perché mi piace molto stare con le persone. Amo molto confrontarmi sul tema “musica”. Sono come quelli che parlano sempre di calcio perché amano quella materia. Io amo veramente tanto la musica e quindi mi viene facile perché alla fine gli artisti sono un po’ ossessivi: parlano sempre di quello che devono fare. E a me non pesa mai. Anzi: mi stimola.

Nel mondo latino – così come in quello hip hop e urban – le collaborazioni sono viste come un’opportunità per migliorare un prodotto discografico. Ci voleva il lockdown per fare in modo che le radio si sedessero al tavolo per un’iniziativa comune come I Love My Radio mettendo da parte il campanilismo radiofonico?

Forse sì. Il lockdown ha permesso a ognuno di noi di fare qualche ragionamento in più. Non tanto noi speaker, ma piuttosto gli editori, i proprietari, credo abbiano fatto quel pensiero in più di cui parlavamo. Sono tutti consapevoli della loro forza e dell’importanza che hanno i loro media. Hanno avuto una grande idea e hanno fatto un bel gesto nel lasciare giù – almeno per un attimo – l’ascia di guerra, che comunque ha permesso a tutti noi di migliorarci.

La competizione – come accade nel rap game – ha fatto uscire nomi come Jay Z o Kanye West: quando la competizione è più alta diventa uno stimolo. Se vado in onda e so che ho dei competitor forti, in fondo ho un’altra tensione. A me piace quel tipo di partita e ho un grandissimo rispetto per i miei colleghi. Anzi cerco sempre di “rubare” da quelli che mi piacciono perché fa parte di questo gioco. Quello che hanno fatto gli editori credo sia molto bello. Era un momento in cui c’era bisogno di stare tutti vicini sia come esseri umani che come radio. Nel nostro piccolo mondo della musica, questo segnale che hanno dato le radio è molto bello.

Qual è a tuo parere la situazione dell’industria musicale italiana, tra instore, tour, club? Quali saranno i primi settori a vedere la luce in fondo al tunnel?

Prima del Covid avevo fatto un blog in cui andavo a sottolineare lo stato di benessere della nostra industria. Se pensi che lo streaming prendeva quote di mercato ed eravamo già in una situazione in cui il 70% degli incassi dell’industria musicale veniva dal digitale, capisci che questo ci rendeva molto competitivi e molto contemporanei. Il live funzionava molto bene. Abbiamo assistito all’esplosione di nuove scene musicali, penso ad esempio all’indie o ai grandi numeri di artisti come come Ultimo, Salmo, ecc. Avevamo una nuova scena florida, ricca, e quel tipo di benessere è fondamentale nell’industria discografica, perché permette di investire sul futuro dell’industria. Il Covid è andato a bloccare tutto ed è andato a creare un grosso problema: però lo risolveremo – parlo come industria – con il buon senso.

Come?

La parte legata alla discografia può fare a meno del disco fisico, ma stiamo parlando di un’industria che era già al 70% digitale e al 30% fisico. E poi il fisico può avere anche altre forme, lo posso vendere anche tramite Amazon e non posso affermare di averlo perso realmente. Con il ritorno all’aggregazione, torneranno poi anche gli instore. Il grande anello debole è quello della musica live. Tornerà nella sua vera natura con l’aggregazione: lì bisognerà usare quel buon senso di cui parlavo prima. Bisogna salvare quell’economia che è molto complicata. E non è quella del big che abbiamo in testa, dell’artista che fa i palazzetti, ma ti parlo di tutta la filiera. Bisognerà muoversi con buon senso e rivedendo ognuno le proprie pretese economiche e favorire così una ripresa che oggi non è scontata.

Tu hai intervistato tanti artisti. Quali sono stati quelli che ti hanno sorpreso maggiormente e perché?

Per me la differenza non è tanto, ad esempio, tra un Vasco Rossi e un Alfa. Per me la differenza che rende una chiacchierata bella o brutta è solo la percentuale di verità che tu riesci a metterci dentro. Quando io dico che un’intervista con Vasco faccio fatica a dimenticarmela, non è tanto perché io sia fan p perché da bambino andavo a vedermelo, ma è perché quella verità (tra l’altro la stessa che Vasco mette nelle canzoni) evidentemente fa parte di lui. Quindi te la mette anche nelle interviste. E allora l’intervista prende un’altra forma. Quando, invece, l’interlocutore si nasconde dietro delle frasi fatte, modello giocatore a fine partita, puoi essere anche Sting, ma diventa poco interessante.

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