Interviste

Naska: «Se imparassi davvero a gestire le mie ansie probabilmente scriverei peggio»

Nel suo terzo album “The Freak Show”, in uscita domani, l’artista marchigiano non abbandona la sua sfacciataggine ma, tra le chitarre elettriche, lascia trasparire un lato intimo inedito. Con lui, in occasione della Giornata Mondiale, abbiamo parlato anche di salute mentale, di cui canta nel disco

Autore Samuele Valori
  • Il10 Ottobre 2024
Naska: «Se imparassi davvero a gestire le mie ansie probabilmente scriverei peggio»

Il rumore ambientale e poi l’arpeggio di chitarra acustica che si stoppa e non capisci se sia un errore come in Good Riddance, e quindi una coincidenza, oppure una citazione. Proprio quei Green Day che accoglievano Diego a casa di sua nonna, i pomeriggi dopo la scuola, quando l’inglese era ancora un ostacolo e la parte recitata che interrompeva il video di Wake Me Up When September Ends una seccatura. Pagliaccio, la traccia conclusiva del terzo album di Naska, è un viaggio nel tempo e nei pensieri del (pop)-punk rocker di origini marchigiane e quella che meglio racchiude il senso di questo nuovo disco.

Il successo inaspettato di Rebel e la conferma de La mia stanza non gli hanno messo pressione, perché se «andare in studio per scrivere è un piacere, non è mai difficile». Soprattutto quando, per forza di cose, sei dovuto scappare dalla “cella numero 62015”, la provincia dove agli stimoli non corrispondono le opportunità. Cresciuto a Villa Potenza, una frazione industriale con un unico bar con l’insegna (ancora) difettosa, Naska si è trasferito a Milano a diciannove anni: la sua storia ormai la conoscono quasi tutti e dopo questo album ancora di più si avverte il suo rapporto di amore e odio con una terra che ama ancora, dove torna di frequente, ma che è stato costretto ad abbandonare.

Lo stesso sentimento che descrive quando parla dell’amore e delle sue relazioni. Senso di colpa, come nel secondo capitolo di Horror, ansie notturne e salute mentale (Piccolo) e tanto divertimento. The Freak Show non si discosta musicalmente dai precedenti lavori, seppur contenga qualche esperimento, come il singolo techno punk Berlino con Greg Willen e Gemitaiz. Le chitarre elettriche e le melodie alla Blink-182 rimangono la sua cifra stilistica. Sì, Naska è sempre lui – il che è allo stesso tempo un pregio e un difetto – il ragazzo sfacciato che non ha messo la testa a posto.

L’intervista a Naska

The Freak Show è il tuo terzo album, come lo descriveresti?
Forse dovrei dire più maturo, ma non piace definirlo così perché quella parola implica anche che io sia cresciuto a livello di “testa”. Ascoltando l’album si sente invece che sono il Naska di sempre. La testa a posto non ce l’ho messa. Lo definirei coraggioso perché ho provato cose che non avevo mai fatto prima. Berlino, per esempio, è un pezzo in cui c’è anche la techno. Corona di spine, invece, è un brano un po’ più grunge dove sbraito. Quindi, sì, The Freak Show è un disco coraggioso.  

In Berlino hai duettato con un altro dei tuoi idoli d’infanzia tra l’altro.
Da ragazzino sono andato a un sacco di concerti di Gemitaiz e Madman e quando penso che nel giro di due anni ho fatto tre pezzi con loro…il Diego adolescente sarebbe impazzito. Per Berlino ho scelto Gem perché una volta l’ho effettivamente incontrato là. Lui è un mega fan di tutta quella scena, così come Greg Willen.

Tu hai iniziato come rapper tra l’altro.
Sì, perché era più facile, soprattutto in un luogo come Villa San Filippo. Trovare un garage dove suonare senza che i tuoi ti rompano le palle, trovare un bassista, un batterista eccetera è veramente difficile. Ero piccolo e la base rap era la soluzione più facile per scriverci sopra e registrare. Tuttavia, già quando ero ancora nelle Marche, in uno dei ultimi pezzi prima di trasferirmi a Milano, Xanny 2, avevo aggiunto le chitarre elettriche perché mi ha sempre appassionato di più quel mondo lì.

Le Marche sono protagoniste in Scappati di casa (62015) che, nel tuo caso, avresti potuto anche intitolare “Scappato da casa”.
Sì, in effetti quella canzone parla proprio di quello. Conosco tanti ragazzi che come me hanno lasciato la provincia e si sono trasferiti a Milano – io l’ho fatto ormai otto anni fa – chi per studio, musica o altre passioni. E la mia è veramente la provincia, proprio quella più profonda. Villa San Filippo è una frazione di Macerata, vicino Monte San Giusto, una zona industriale dove ci sono più fabbriche che case. C’è un solo bar con un’insegna luminosa che non va e, anche qualche settimana fa, quando sono tornato giù, era ancora lì così. In quella canzone racconto più la volontà di scappare di casa che la voglia di trasferirmi in città, descrivendo anche la malinconia che si prova a lasciare affetti e amici.

Fare musica rimanendo nelle Marche è molto complicato.
Credo che valga la stessa cosa per gran parte delle province e delle regioni. Non si tratta di mancanza di stimoli, quanto di possibilità concrete. Non nego che puoi iniziare a sfondare, facendoti conoscere su YouTube o Spotify, anch’io l’ho fatto, poi però arriva un certo punto in cui sei costretto a trasferirti. Molti si spostano a Milano perché gran parte dell’industria è lì.

Quest’estate ti sei esibito anche al Valley di Tolentino, che effetto fa suonare a casa? Di solito gli artisti provano più pressione.
In realtà io non soffro troppo d’ansia da prestazione prima dei concerti.È sempre molto bello, mi ricordo due anni fa, quando suonai al MIND Festival di Montecosaro, che è ancora più vicino a casa mia, e c’era una marea di gente che non riuscivo a vedere la fine. C’era persino mia nonna che non esce mai di casa, è quasi agorafobica. Il fatto che ci siano più persone che conosco mi mette un po’ più pressione del solito, ma non tanto da farmi stare in ansia.

Hai citato Corona di spine, forse il brano più aggressivo che hai scritto in carriera, in cui ti rivolgi agli haters. Come gestisci la cosa?
Di solito non rispondo mai agli haters e quando ho scritto questo pezzo ero veramente incazzato. Era appena uscito il video di Berlino che è un po’ spinto e nei commenti mi dicevano che dovevo dare il buon esempio, che mi seguono ragazzi anche più giovani. Però io nel ritornello canto appunto che non sono un esempio da seguire: «Morto con la corona di spine, ma mamma prega per me».

E a chi ti dice che non sei punk?
Non li sopporto. Se hai frequentato i centri sociali non vuol dire che puoi giudicarmi più o meno punk. Non conosci le mie scelte di vita e ciò che mi ha portato a questo punto. Come ho detto prima, però, raramente rispondo. Se mi mettessi a leggere tutti i commenti impazzirei, per cui evito.

The Freak Show contiene due brani molto personali, il primo è Piccolo in cui parli di salute mentale. Com’è nata la canzone?
L’ho scritta pensando a una di quelle notti in cui preferiresti non rimanere solo perché senti che quei “mostri” di cui canto nella canzone verranno a cercarti. Avevo voglia di esternare questa ansia. Io, per sfortuna e per fortuna non vado dallo psicologo. Sfortuna perché forse mi farebbe bene andare, fortuna perché io riesco a scrivere solo quando sto male. Ho paura che se andassi dallo psicologo, riuscendo a gestire meglio queste ansie, non scriverei come adesso. Però, per chi non ha una valvola di sfogo come la mia, è una cosa fondamentale. Come dice Gem, “vivere male per scrivere bene”.

Poi c’è Pagliaccio dove parli dell’amore per i live e di come le canzoni che scrivi spesso siano per gli altri e non per te. Ci sarà stata però almeno una canzone che hai scritto e che ti ha aiutato…
Beh, che mi abbia proprio aiutato o risolto dei problemi no, però che mi abbia fatto tirare un sospiro di sollievo sicuramente. Io non sono una persona che si apre molto, nemmeno con gli amici più stretti. Scrivere mi dà una mano e mi permette di sfogarmi.

Il prossimo 7 dicembre debutterai all’Unipol Forum, scaletta pronta?
Ancora non ho deciso l’ordine delle canzoni, forse partirò con E mi diverto, ma di certo suonerò tutti e tre gli album. Si passerà dall’ora e mezza di concerto alle oltre due ore. Infatti mi stanno facendo fare cardio, palestra e tanto allenamento per la voce. Poi ci saranno degli ospiti e io che salto da una parte all’altra del palco.

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