PFM: «L’unico antidoto all’influenza dei media è tornare a immaginare»
Il gruppo torna venerdì 22 ottobre con un concept album, Ho Sognato Pecore Elettriche. Un progetto ambizioso, con diversi featuring importanti. La nostra intervista
Ormai saldamente in mano al duo Franz Di Cioccio / Patrick Djivas, amici fraterni e sezione ritmica tra le più accreditate del nostro classic rock, la PFM ritorna al proprio pubblico con un ambizioso nuovo progetto, Ho Sognato Pecore Elettriche / I Dreamed of Electric Sheep. Un concept album, il primo dai tempi della “rock-opera” Dracula.
Il lavoro si discosta in parte dalla devozione alla canzone d’autore che caratterizzava il precedente Emotional Tattoos (Inside Out / Sony Music, 2017), per riprendere le atmosfere futuribili dell’unico disco interamente strumentale della band, Stati di Immaginazione (Aerostella / Sony Music, 2006). In attesa del numero di novembre, vi proponiamo un estratto dall’intervista.
Franz Di Cioccio: È il frutto di un momento particolare. Sulle prime, reduci da più di cento date di tour, avevamo deciso di concederci un momento di riposo, che poi, a causa della pandemia, si è prolungato a dismisura. Lavorare su un disco era anche l’unico modo che avessimo per continuare a fare musica. Nei pezzi si sentono dei musicisti che hanno voglia e bisogno di suonare il più possibile.
Patrick Djivas: Fa parte del nostro DNA. Un giornalista francese mi diceva l’altro giorno in un’intervista che si contano 980 nostri concerti all’estero, dall’America all’Europa, dal Sud America al Giappone. Sicuramente il contratto con la Inside Out ha un suo peso, però è anche vero che noi ci misuriamo con altri mercati discografici e circuiti live fin dal 1974.
Dai featuring prestigiosi del nuovo album alle tematiche principali
FDC: Li conosciamo entrambi da tanto tempo, anzi, sono stati dei maestri. Ian Anderson aveva partecipato con noi al Festival Prog Exhibition, suonando una versione che avevamo arrangiato di proposito di uno dei brani dei Jethro Tull più classici, Bourrée, e la nostra La Carrozza di Hans. Si sono entrambi lasciati coinvolgere con entusiasmo.
PD.: Del rapporto fra il nostro quotidiano e il mondo tecnologico. Il tutto è ambientato in una dimensione futuribile, legata alla fantascienza del film Blade Runner e del romanzo Do androids dream of electric sheep? di Philip Dick, dal quale abbiamo tratto il titolo. L’unico antidoto contro l’eccessiva influenza che hanno i media sulle nostre vite consiste nel tornare ad immaginare, partendo da sé stessi.
FDC: Anche questa è una ragione per cui ci sono così ampi squarci strumentali nel disco. La presenza di un testo a volte può ridurre la capacità della musica di far comprendere un concetto, soprattutto se è complesso o astratto. La musica è libertà, che va dal funky al jazz al blues e, finalmente, fino al metal. Il brano d’apertura, per esempio, attraversa 200 anni di musica in cinque minuti.
PD: Abbiamo fatto solo dischi legati al nostro gusto del momento. Per questo nessun album della PFM somiglia al precedente. Dopo cinquant’anni di carriera non puoi permetterti di suonare qualcosa che non ti emozioni personalmente e di fatto emozionarci per qualcosa che stiamo creando non è facile, perché di musica ne abbiamo fatta veramente una marea. È come se l’asticella della qualità si alzasse continuamente col tempo e si cercasse sempre quella piccola rivoluzione, che ogni volta è data da un particolare diverso: un passaggio, una modulazione, o chissà cos’altro.
Se ci sono dei tratti più ricercati nei nostri pezzi non sono fini a sé stessi, ma servono a realizzare il senso complessivo della musica. È una cosa che capisci una volta per tutte a 15 anni, l’età che ciascuno di noi aveva quando ha iniziato, e che ci è rimasta dentro. Bisogna dare alla musica un significato. Non accompagnare, ma suonare.
FDC: Un mio amico musicista americano dice sempre che la musica è un fatto di “inspiration” e “perspiration”, nel senso che dopo avere avuto una bella intuizione, bisogna sudare davvero tanto perché alla fine suoni davvero come te l’eri immaginata.
«C’è troppa paura di uscire dal mainstream e non è una cosa buona per la musica»
FDC: Battisti mi lasciava carta bianca. Emozioni fu suonata in diretta e quando Lucio iniziò a cantare con tutto il suo pathos, approfittai di un passaggio dell’orchestra per lasciare le bacchette normali e prendere quelle con il feltro, i mallet, per fare meno “rumore” possibile. Quei pochi tocchi creano la magia di quello che io volevo esprimere suonando la canzone, ma il fatto che ogni musicista si sia comportato allo stesso modo ha formato la magia complessiva dell’esecuzione. Oggi un processo creativo del genere si verifica molto più difficilmente e forse per questo a volte siamo a corto di canzoni importanti.
PD: No, credo che in realtà i ragazzi siano un po’ bloccati. Nessuno prova strade diverse, c’è troppa paura di uscire dal mainstream e questa non è buona cosa per la musica. Fabrizio per fare Fabrizio De André uscì dal mainstream. E così Paolo Conte e Mina e tutti gli altri grandi. Anche oggi la regola per diventare importanti sarebbe la stessa, ma il fatto è che il mainstream è diventato troppo potente.
Il grande sogno della PFM
PD: Dipende dal “carrier”, da ciò che c’è intorno all’artista e lo supporta. Quando noi iniziammo c’era il vantaggio che la televisione non era potente come oggi e neanche lontanamente quanto lo sono diventati i social media. Quando la PFM fece le sue prime cose o io iniziavo la mia carriera con gli Area non era diverso. Avevamo comunque tantissimi nemici. C’erano i 45 giri, i jukebox, la televisione della domenica pomeriggio. I nemici di oggi però si stanno affermando con una velocità eccessiva, innaturale, che non permette alle persone di trovare una chiave di reazione. È ciò che fa più paura.
FDC: Sì, l’aspetto distopico del disco è sostanzialmente questo. I social sono prepotenti e e non permettono di guardare oltre il mondo che creano. O esisti in quella dimensione o non ci sei. Oggi i ragazzi sono come tramortiti dai media, non riescono ad usarli davvero, anzi sono i media stessi ad usare loro.
PD: Nonostante i giovani abbiano di fatto inventato i media, non riescono a servirsene per fare la loro rivoluzione. Noi allora facevamo la rivoluzione per bucare il sistema ed entrarci, loro oggi dovrebbero fare quella contraria, per uscirne. I giovani nel tempo hanno creato la loro musica, hanno acquisito una visibilità e dei diritti, hanno inventato il concetto di personal computer, solo che così facendo sono diventati un mercato potente da inseguire e adesso sembrano di nuovo intrappolati dal sistema.
FDC: Anche i ragazzi sognano pecore elettriche.
FDC: Sempre lì. Utopia e distopia vivono sempre una accanto all’altra e il mondo moderno è pieno di contraddizioni, le stesse che abbiamo voluto raccontare tramite la musica.
PD: Succederà, come sempre, che i ragazzi troveranno la strada. Non sappiamo dirti quando accadrà, né come, ma è certo che accadrà.
Ricominciare a suonare dal vivo.
Potrete leggere l’intervista completa sul numero di Billboard Italia di novembre.