Dietro le quinte dell’Ariston con il direttore di palco Pippo Balistreri
Dal 1981 è il direttore di palco del Festival: figura tanto essenziale quanto nascosta, è anche una memoria storica delle evoluzioni di Sanremo nei decenni
Per la riviera ligure quest’edizione di Sanremo è stata un evento nell’evento, poiché ha dato inizio alle celebrazioni per il 60° compleanno del Teatro Ariston, casa del Festival dal 1977 in avanti. L’Ariston esisteva già da 14 anni, tra i simboli dell’Italia ancora in pieno boom economico che si ricostruiva dalle macerie della guerra. Una bomboniera da 1909 posti. Nulla a che vedere con le profondità grandangolari che un po’ le telecamere, un po’ la nostra fantasia puntualmente da decenni ci raccontano. Eppure, nonostante le attuali dimensioni dell’evento televisivo, quello fra Ariston e Sanremo rimane un binomio inscindibile.
Ne abbiamo parlato con una figura chiave, tanto mimetizzata quanto essenziale, il direttore di palco. Pippo Balistreri è, dal 1981, la persona che da dietro le quinte cura che l’enorme macchina giri senza intoppi. Ecco la nostra intervista fra aneddoti e segreti del mestiere.
L’intervista a Pippo Balistreri
Tra i tormentoni che riguardano il Festival, uno di quelli che si sentono più spesso parla addirittura di una “magia del Teatro Ariston”. Di che cosa si tratta, per te che la vivi così dall’interno?
È soprattutto un fatto di adrenalina. Durante i giorni di preparazione, che sono febbrili, puoi proprio respirarla. Quando arrivano sul palco i cantanti, anche quelli con il carattere più forte, hanno il cuore in gola. Questo, complice anche l’attenzione dei media e dei social, crea qualcosa che non ha eguali nel mondo.
Poi c’è l’effetto delle scenografie. La scala, che dà suspence all’esibizione, con tutta l’attenzione fissa sui personaggi, anche un po’ sulla loro paura di cadere. E le luci, che nascono da un grande lavoro comune fra il direttore della fotografia e lo scenografo.
Qual è il tuo ruolo come direttore di palco?
Realizzo una mise en place di quello che gli autori hanno pensato, coadiuvato da una squadra che a partire dagli anni ’90, quando il Festival ha cambiato passo, è diventata sempre più ampia e professionale.
In che senso parli di una svolta negli anni ‘90?
Fino ad allora Sanremo aveva sempre avuto un patron, figure come Ravera e Aragozzini, e la partecipazione della Rai all’evento era più limitata. Il cambiamento è coinciso con l’assunzione da parte della Rai di una responsabilità artistica completa.
È nata allora la figura del presentatore-direttore artistico che incide anche sul format dell’evento televisivo? Penso, ovviamente, a un personaggio come Pippo Baudo.
Sì. Baudo, che aveva già alle spalle diverse conduzioni del Festival anche nei decenni precedenti, dal ‘92 al ‘96 presentò cinque edizioni consecutive, le ultime tre anche con la funzione di direttore artistico. Diciamo che alla scuola di Baudo sono da ricondurre figure come Carlo Conti e Amadeus. In altre occasioni, per esempio nel 2003, con la direzione di Gianmarco Mazzi, le figure del conduttore e del direttore artistico erano distinte.
Che ricordo hai della tua prima edizione?
Avevo appena vinto una competizione per DJ a Parma. Gianni Naso, che era il direttore dell’Associazione Italiana DJ e lavorava per Gianni Ravera, mi propose di collaborare a Sanremo. Fui interpellato per la scelta del superospite straniero e io proposi i Dire Straits. Quando arrivarono, ero l’unico in grado di parlare in inglese con loro. Naso mi mise in mano il microfono e mi disse: “Veditela tu, fagli fare le prove”.
E come andò?
Erano dei giovani rocker inglesi che di Sanremo non conoscevano neanche l’esistenza e che avevano lo stile di vita delle rockstar anni ‘80. Ho dovuto cazziarli parecchio (ride, ndr).
Che mi dici dei Queen, che furono ospiti a Sanremo nell’84?
Non volevano saperne di suonare in playback. All’epoca però a Sanremo non c’era ancora l‘orchestra, né si usava esibirsi dal vivo. Brian May in particolare si arrabbiò tantissimo. Quando tornò nel 2012, chiamato da Zucchero per duettare con Irene Fornaciari e Kerry Ellis, era contento di poter suonare davvero. Freddie Mercury invece era allegro, spensierato. In un ambiente come quello sanremese dell’epoca queste grandi star internazionali erano facce conosciute solo agli addetti ai lavori. Per i cantanti il playback era di tutto riposo.
Per qualcuno ogni tanto la vacanza era rischiosa. Tipo Peter Gabriel, con le sue schienate dopo aver volteggiato sul pubblico appeso a una fune…
Successe sia la seconda che la terza sera. Si fece male sul serio, lo portarono anche in ospedale. Ai tempi era abbastanza matto. Erano gli anni ’80, non aggiungo altro…
C’è stato negli anni anche qualche ospite indesiderato, come il mitomane “Cavallo Pazzo” o Pino Pagano, che minacciò di suicidarsi in diretta gettandosi da una balaustra.
Entrambi gli episodi successero con Baudo. Di Cavallo Pazzo ci avevano dato anche le fotografie, era segnalato. In realtà se ne stava tranquillamente seduto in terza fila e a un certo punto fece un salto sul palco facendo perno su un flight case. Non avevo niente del genere in scaletta e mi precipitai a fermarlo. A Pino Pagano invece, Baudo offrì 500mila lire per calmarlo, durante la pubblicità. Gliele prestai io.
È vero che non le hai più riviste?
Sì (ride, ndr). Ci hanno fatto anche una gag in cui mi sono prestato come ospite durante una trasmissione della Cuccarini.
A Sanremo ci sono state pochissime conduttrici femminili, tra le quali è impossibile non ricordare Raffaella Carrà. Com’è stato lavorare con lei?
Quella della Carrà è stata una delle pochissime edizioni che ho saltato.
Mentre hai fatto il Sanremo di Loretta Goggi, chiamata in corso d’opera a sostituire Baudo, che stava sposandosi, giusto?
Esatto. Loretta fu bravissima. La sua conduzione fu talmente brillante da sorprendere tutti.
E hai fatto anche quello con Antonella Clerici, che invece per te era una vecchia conoscenza, giusto?
Certo, otto anni di collaborazione per Ti lascio una canzone sono stati una grande palestra. Ormai ci capivamo a sguardi.
Come hai vissuto l’atmosfera un po’ spettrale delle serate senza pubblico in piena pandemia?
Siamo stati aiutati dal binomio Amadeus-Fiorello. Senza di loro l’impresa sarebbe stata impossibile. Persone che avevano la capacità di lavorare duro, ma di continuare a scherzare su tutto, a inventarsi di tutto, integrando il lavoro degli autori, improvvisando a un ritmo incredibile.
Nel dirigere il palco più importante della TV generalista ti sarai ritrovato a gestire artisti veramente diversissimi tra loro. Il massiccio ingresso di artisti provenienti dall’indie o dal rap nelle ultime edizioni ha cambiato il tuo modo di lavorare?
No. Il fulcro di tutto è sempre l’attenzione alle esigenze dell’artista durante le prove. Deve crearsi una relazione positiva, che lo lasci soddisfatto, contento, padrone della situazione. E questa è una legge che vale con qualunque artista, a prescindere dall’anagrafe e dai generi.