Interviste

Simon Reynolds: «Anche nell’era digitale siamo ancora corpo e desiderio»

Il grande critico inglese, intervenuto durante la Biennale Musica 2023 di Venezia, è fra i protagonisti del nuovo numero di Billboard Italia, dedicato agli scenari futuri dell’industry

Autore Tommaso Toma
  • Il27 Novembre 2023
Simon Reynolds: «Anche nell’era digitale siamo ancora corpo e desiderio»

Simon Reynolds (foto di Stefano Masselli)

Venezia: in un ultimo venerdì di ottobre finalmente autunnale, la scrittrice e studiosa di teoria dei media australiana McKenzie Wark, il DJ/producer Kode9 e il critico Simon Reynolds dialogano negli spazi dell’Archivio Storico delle arti contemporanee sulla produzione musicale elettronica recente. Indugiano sul termine hardcore continuum, che coniò proprio Reynolds decenni fa, creando così un fil rouge tra i generi di musica elettronica, dalla jungle dei primi anni ’90 alla dubstep di inizio nuovo millennio.

Questo incontro con Simon Reynolds e gli altri è stato uno degli ultimi appuntamenti di quest’ultima ricca edizione, la 67°, del Festival Internazionale di Musica Contemporanea – denominata Micro-Music – che ha visto tra gli altri Brian Eno premiato con il leone d’Oro alla carriera.

Noi ne abbiamo approfittato per dialogare con Simon Reynolds sui temi del nuovo numero di Billboard Italia: la musica e il futuro. Ecco un estratto dell’intervista.

Simon Reynolds - intervista - 2
Simon Reynolds alla Biennale Musica 2023 di Venezia

L’intervista a Simon Reynolds

Se tu dovessi adesso scrivere un nuovo capitolo del tuo libro Futuromania, uscito prima della pandemia, su cosa si soffermerebbe e perché?

Senza ombra di dubbio mi concentrerei sull’avvento della AI e sul machine learning. Tutti sembrano essere piuttosto entusiasti di questi temi. Ma non arriverei a delle conclusioni. È un argomento che dipenderà molto, nel bene e nel male, da come si evolveranno la nostra relazione e percezione con queste novità tecnologiche.

Anche il mio pensiero sull’uso dell’autotune di quando avevo scritto Futuromania oggi prevederebbe delle postille, dei cambiamenti. Infatti le persone che avevano realizzato l’autotune pensavano che sarebbe stato poco appariscente, avrebbe sistemato il modo di cantare e in pochi se ne sarebbero davvero accorti. Invece l’autotune piaceva proprio per l’artificialità che produce, con i suoni strani a cui dà forma, molto artificiali. Chi utilizzava l’autotune lo faceva teoricamente nel modo sbagliato, o almeno nel modo in cui non era previsto. Ma il risultato era affascinante e la componente di stranezza attirava.

Ho appena letto un’intervista a Daniel Lopatin sul New Yorker. Afferma che trova l’AI interessante quando è applicata alla musica e dà forma a una combinazione che in realtà risulterebbe un errore. In quel caso, secondo Lopatin, si crea un cortocircuito sonoro inedito che noi umani non avremmo mai potuto realizzare. Ecco, penso che spetti solo a noi e ovviamente agli artisti prendere una decisione finale se l’entrata in gioco di una tecnologia sia qualcosa di interessante o no.

Anche nel giornalismo si sta diffondendo l’uso dell’AI. Difficile pensare a un “cortocircuito” che piaccia ai lettori…

(Sorride, ndr) Se stai cercando di creare un articolo che sia obiettivo e che non abbia personalità per esempio per un necrologio, dove cerchi di trasmettere qualcosa di molto imparziale, probabilmente l’AI si dimostrerà molto abile.

Sai, se tu dovessi scrivere con un minimo di sentimento o con un punto di vista, hai bisogno di qualcuno che porti con sé tante esperienze, che abbia vissuto tante emozioni, che abbia qualche tipo di connessione reale con l’artista o il genere di cui scrive. Anche se si trattasse di un necrologio, se hai conosciuto la persona di cui stai scrivendo, difficilmente l’intelligenza artificiale ti può surclassare. Ricordo di aver scritto un articolo dopo la morte di Florian Schneider dei Kraftwerk. Alla fine mi sono accorto che ho scritto un articolo tributo ai Kraftwerk dalla prospettiva di Florian.

Una cosa complessa per l’intelligenza artificiale.

Già, ricordo che finivo l’articolo con un aneddoto personalissimo, di anni fa, quando mi misi a piangere commosso mentre ero in viaggio in autostrada in Germania. Il mio lettore CD aveva un compilation di band come loro, La Düsseldorf e Neu!. Mi misi a piangere per la maestosità di quella musica, mentre scorrevano sotto i miei occhi file di pale eoliche in quei luoghi verdi. Era un sound che sembrava anche commentare quel passaggio della Germania dall’uso massiccio del carbone a una nuova forma di energia. Avrei potuto simulare, immaginare tutte queste cose, certo, ma non lo so se sia in grado l’AI.

Parlando di musica elettronica, tema a te molto caro, vorrei un tuo pensiero sulla crisi dei club. Il pubblico giovane pare sempre più preferire di ballare nei grandi raduni dance piuttosto che chiudersi in un club.

Premetto che non ho più l’età per andare nei club, quindi non ho la situazione monitorata direttamente dalla mia esperienza, ma ho per fortuna un figlio che mi tiene aggiornato. Vive a Brooklyn e scrive anche lui di musica. Una cosa che mi ha colpito è che va sempre più spesso in piccolissimi club o partecipa a questi micro-rave da 50 persone, e pare che funzionino benissimo. Spesso avvengono in luoghi deserti e post-industriali, sotto ponti o in luoghi di giorno deserti.

Comunque il Covid ha comunque cambiato degli atteggiamenti, anche se ora il peggio è passato. Negli anni ’90, e non solo, nei club c’era anche questa cosa di condividere l’acqua, era un segno di convivenza amichevole tra i clubber. Immagina cosa sarebbe successo se un virus come il Covid si fosse propagato durante l’era dei rave.

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