Fuga al termine della notte con gli Studio Murena: l’intervista
Il gruppo milanese, dopo il deserto di “WadiruM”, è tornato in città con l’intento di guardarsi dentro. Il tour e il nuovo disco hanno cambiato la loro prospettiva, ma il jazz e la creatività intesa come un “fare” collettivo sono sempre al centro

Foto di Irene Trancossi
Quando si pensa al notturno, vengono subito in mente Chopin, il romanticismo e quelle composizioni intime spesso ispirate dai pensieri che si fanno al buio, con gli occhi della mente: lo sguardo gli Studio Murena stavolta l’hanno spostato dal deserto esteriore al caos interiore. Il loro è un viaggio e una fuga da se stessi e dalla notte. La città, che non può che essere e restare Milano – dove vivono, suonano, registrano e sperimentano – è lo specchio delle emozioni e delle sensazioni raccontate dai versi di Lorenzo Carminati. Ma non solo, il suono jazz-rock che nasce dagli strumenti di Amedeo Nan (chitarra elettrica), Maurizio Gazzola (basso elettrico), Matteo Castiglioni (tastiere e synth), Marco Falcon (batteria) e Giovanni Ferrazzi (elettronica e sampler) è frutto del costante andirivieni dalla metropoli.
Dopo WadiruM – tra i migliori album italiani del 2023 secondo noi – la vita artistica e personale del collettivo è cambiata. La difficoltà nel trovare luoghi dove suonare è sfumata a fronte di un’enorme richiesta di novità nel panorama italiano. Oggi, più che mai, in Italia sembra che tutti vogliano fare jazz e mescolarlo con altro, soprattutto nell’ambito del rap. Tuttavia, come ci spiega Maurizio, non bisogna correre il rischio di semplificare: il jazz non si lega solo alle rime. Bisogna guardare all’estero e continuare a lasciarsi ispirare dalle forme diverse che il genere assume. Con Lorenzo finiamo a parlare di Viagra Boys e Black Country, New Road e di come il jazz può legarsi a qualsiasi cosa.
Notturno è un disco molto più claustrofobico rispetto al precedente. Tre porte di paura è il manifesto di quella sensazione. Eppure, a livello sonoro mette in mostra delle aperture inedite. In Vai Via con Rodrigo D’Erasmo c’è forse il ritornello più bello scritto dal gruppo. In Nostalgia, su suggerimento dell’ormai fido Tommaso Colliva, inseriscono Domani è un altro giorno di Ornella Vanoni e persino Mezzosangue, in Fuori Luogo, non rappa in modo classico, ma si dedica al refrain. È il marchio di fabbrica degli Studio Murena, «creare improvvisando», ed è evidente come il loro stile influenzi chiunque si trovi a collaborare con loro.
L’intervista agli Studio Murena
Il vostro nuovo album si apre con Another Day with Another Sun. Il tour è diventato una routine per voi. Quanto è cambiata la vostra vita dopo WadiRum?
Lorenzo Carminati: Ormai questa è la nostra vita. Dal 2021, da quando abbiamo avuto la possibilità di cominciare a suonare un po’ in giro e vedere posti nuovi, il nostro modo di fare musica è diventato ancora più consolidato. Dopo WadiruM andare in tour è diventata un po’ un’abitudine. Potrei definirla una dimensione esistenziale che conosciamo e viviamo quotidianamente.
In Studio Murena raccontavate la metropoli, poi il deserto in WadiruM. Notturno è un ritorno a Milano, ma in modo più introspettivo e claustrofobico.
Maurizio Gazzola: Per noi è inevitabile tornare a Milano, infatti, c’è spesso nei testi di Lorenzo. Dal mio punto di vista è anche qualcosa che ci ispira a livello sonoro, vivendola ogni giorno. In realtà, il collegamento tra il deserto e il concetto di metropoli c’è anche in questo disco, la differenza è che tutto avviene di notte.
L: Sì, lo scenario di Milano è lo sfondo per un ritorno a un’intimità diversa. Ricollegandomi al discorso di quanto sia cambiata la nostra vita, in questi due anni scrivere musica è stato necessario per poter raccontare la densità di alcune sensazioni inedite. Credo che questo livello d’intimità maggiore derivi anche dall’aver vissuto la città su un altro piano.
Una cosa interessante è che, scorrendo i testi, è sì, un album notturno, ma in cui lo sguardo ha un ruolo da protagonista. È un contrasto voluto?
L: Rifletto spesso su questa cosa delle pupille e degli occhi e mi rendo conto che è la parte del corpo che utilizzo di più per riferire quello che sento. In realtà è tutto spontaneo, non c’è un ragionamento dietro. Per me gli occhi sono veramente indicatori e portatori di un sacco di vibrazioni e la cosa bella è che, alla fine, con la musica si parla di un senso, ma poi si usano tutti gli altri per raccontarsi. Al contrasto con la notte invece non ci avevo pensato. In effetti, di notte non ci vedi (ride n.d.r.).
Avete registrato il disco ancora ai Laboratori Testone e di nuovo con Tommaso Colliva. Anche questa volta il principale beneficio è stato il tempo a disposizione?
Amedeo Nan: Sono state due esperienze molto diverse a dire il vero. Quella di WadiruM, a posteriori, ci ha aiutato tanto a rientrare in studio e affrontare questo nuovo capitolo in maniera più consapevole. Banalmente ci è servita per imparare come si lavora con un produttore, come si scrive e come si registra. All’epoca avevamo fatto alcune riunioni, qualche cena, e poi ci eravamo ritrovati in studio con Tommaso. Ci siamo dovuti conoscere perché fare musica insieme, soprattutto nella fase di realizzazione che è la più delicata, è complesso. Devi condividere qualcosa di molto personale. Con Notturno tutto quel tipo di “lavoro” era già fatto. Tutti puntavamo allo stesso obiettivo e seguivamo la stessa direzione.
M: Il paradosso è che le registrazioni stavolta sono durate di più. Abbiamo passato molto più tempo in studio con Tommaso. Forse proprio perché ci sentivamo più tranquilli nel farlo entrare nel nostro mondo.
Oggi in Italia, mescolare il jazz con altri generi è diventato quasi un trend, soprattutto nel rap. Percepite una differenza rispetto al passato?
A: Credo che fosse solo una questione di tempo. Sempre più artisti internazionali del genere si esibiscono in Italia ed è ovvio che, sentendo queste nuove vibrazioni, qualcuno si interessi e scopra che c’è anche qualcos’altro. Che esiste un altro modo di fare musica al quale nel nostro Paese non eravamo abituati. Hai citato il rap con le produzioni jazz, noi ci sentiamo ancora qualcosa di diverso.
M: Sì, la cosa importante per me è che non si finisca col semplificare il tutto all’unione di jazz e rap. Come si vede fuori dall’Italia, questo tipo di genere sta bene con tutto. È l’intenzione dietro alla fusione degli elementi che conta davvero. Ci sono tanti esempi che stanno uscendo come hai detto, ma secondo me sono ancora un po’ troppo in sordina. Il potenziale in Italia però è altissimo. Esiste già una scena e chi ne fa parte la vive in modo forte e coinvolgente. All’esterno purtroppo, invece, si percepisce meno.
Sì, all’estero, soprattutto in Inghilterra, il jazz da anni influenza anche il rock e il punk. Penso ai Black Country, New Road o anche ai Viagra Boys in Svezia.
L: Viagra Boys totali. Li adoro.
A: Questa è davvero la cosa interessante del mischiare questi generi musicali, perché poi effettivamente a ognuno esce un po’ la propria miscela. Che significa fare jazz? È veramente complesso definirlo perché ogni decennio cambia. Per esempio, jazz degli anni Trenta e quello dei Sessanta sono due generi totalmente diversi. Il nostro modo di intendere il jazz è più un’attitudine all’improvvisazione. Al creare improvvisando.
Tra i personaggi di Notturno, oltre a Baba Jaga, c’è anche il pittore Oskar Kokoshka che trasporta il racconto a Vienna. Come mai?
L: Vienna è stata scelta perché in quella città ho vissuto le cose di cui parlo. I luoghi che richiamo nel testo sono esattamente quelli che riguardano la mia storia personale. Per me ha un significato emotivo abbastanza denso. In parte è anche una metafora di Milano dato che tra le due città ci sono tanti parallelismi. Oskar Kokoschka è invece una figura che mi ha sempre affascinato, insieme alla corrente artistica di cui faceva parte che predilige l’autorappresentazione. Sento che quel tipo di espressionismo abbia molti aspetti che si avvicinano al modo in cui concepiamo la nostra musica.
In questo disco vi siete aperti ancora di più al ritornello cantato. In Nostalgia avete inserito anche Domani è un altro giorno di Ornella Vanoni. Che storia c’è dietro?
L: Nostalgia è stato uno dei primissimi pezzi che abbiamo scritto, tant’è che lo suonavamo già dal vivo in una forma diversa. L’idea di inserire la Vanoni è stata di Tommaso Colliva. Ascoltandolo ha pensato che si potesse svoltare il ritornello in una maniera un po’ più corposa e memorabile. E lo stesso discorso è stato fatto anche per quanto riguarda l’elettronica all’interno delle varie tracce che ha molto più spazio. Ci gasava pensare di inserire dei sample e allo stesso tempo ci sono delle parti che sono state trattate come dei campioni, ma che in realtà sono state suonate concretamente.
Parlando di nuovi suoni, gli interventi di 24kili in Baba Jaga e Oskar Kokoshka sono una botta di adrenalina. Si può sapere chi è?
L: 24kili è il nome, ma non il peso (ride n.d.r.). È un easter egg del disco. Un antieroe super performante nella società, con il suo lavoro d’ufficio, che però soffre internamente e si sfoga scrivendo delle cose brutali. Tutto è nato proprio su Baba Jaga, in cui dopo tre strofe di rap c’era un momento di distensione. Un membro degli Studio Murena, mi ha mandato 8 barre chiedendomi di rapparle. Io gli ho detto: “Ma perché non la rappi tu?”. Visto che Quasimoto e MF Doom ci piacciono un botto e sono tra i primissimi ascolti che ci passavamo già nel 2018, abbiamo pensato di provare a fare una cosa del genere.
Tra le collaborazioni più interessanti c’è anche quella con Rodrigo D’Erasmo in Vai Via che è anche uno dei brani con il ritornello più radiofonico. Potrebbe essere una strada futura da percorrere per gli Studio Murena?
L: Scrivere ritornelli che si possano cantare con leggerezza, senza preoccuparsi degli incastri, era ed è una cosa che ci piacerebbe indagare. In questo Rodrigo ci ha aiutato molto. Con lui ci eravamo conosciuti all’Uno maggio di Taranto e finalmente l’abbiamo coinvolto in un nostro disco. Questo è un punto centrale per quello che facciamo come Studio Murena. Creare in modo spontaneo e collettivo.
Baba Jaga pone sempre due domande agli avventori che la interpellano.
La prima è: “Cercate qualcosa?”
M: Una nostra dimensione, sia come genere che come progetto, nel panorama italiano.
Da cosa fuggite?
L: Da noi stessi (ride n.d.r.).
M: Da noi stessi e dai cliché.