Interviste

Suzanne Ciani, la “diva del diodo” che affascina le nuove generazioni

A 77 anni la compositrice italo-americana, vero culto per chi è affascinato dalla “musica spazializzata”, ha lasciato a bocca aperta i giovani amanti della musica elettronica con due recentissimi show a Torino e alla rassegna Inner_spaces di Milano. L’intervista di Gaetano Scippa

Autore Billboard IT
  • Il14 Aprile 2024
Suzanne Ciani, la “diva del diodo” che affascina le nuove generazioni

Foto di Riccardo Trudi Diotallevi

Il suo sorriso emana energia e positività, come le frequenze che fuoriescono dall’inseparabile sintetizzatore Buchla quando le sue mani vissute lo animano con movimenti sinuosi e precisione chirurgica. Da oltre mezzo secolo la pioniera della musica elettronica Suzanne Ciani, statunitense di origini italiane, è portavoce della musica spazializzata e suonata solo in quadrifonia attraverso il prezioso strumento. La “diva del diodo” ha trovato anche da noi un ambiente ideale per esprimersi, nel doppio concerto che si è tenuto al cinema Massimo di Torino e all’auditorium San Fedele di Milano per l’iniziativa combinata di Jazz is Dead! festival e della rassegna Inner_Spaces.

Non una semplice esibizione, ma uno show interattivo e divulgativo per mostrare, condividere e incuriosire: Suzanne si presenta sul palco mimando un inchino di danza, si posiziona al tavolo di lavoro e fa partire un set circolare in cui mostra tutta la versatilità del Buchla 200 con tanto di immagini video proiettate sullo schermo che ne riprendono la gestualità in tempo reale.

Onde oceaniche, quelle che si infrangono sulle rocce della sua dimora nella baia di San Francisco, ma in versione elettronica, fanno presto largo a un flusso sonoro che alterna momenti ambient ad altri più sincopati e percussivi. Un vortice di suoni ed effetti con frammenti dall’emblematico album Seven Waves del 1980 – che ha dato il nome alla sua attuale label – al muscolare LIVE Quadraphonic del 2018 con tanta improvvisazione di mezzo, finché il ciclo si conclude facendo ritorno alle onde oceaniche.  «Quello che vedete è ciò che sentite. Non ci sono trucchi» dice a fine concerto. Poi invita il pubblico a fare domande. Lo fa salire sul palco per ammirare l’apparecchiatura analogica (ma ci sono anche un controller, due iPad e un laptop) e incolla i presenti per un’altra ora.

Nei giorni di permanenza milanese condivisi con lei, Suzanne Ciani ci ha raccontato della famiglia di origine, come ha vissuto l’evoluzione del Buchla, questo leggendario synth modulare che a fine anni Sessanta negli Stati Uniti faceva concorrenza al più blasonato Moog, e della sua magnifica ossessione per la quadrifonia. Ci ha parlato anche di sessismo, opportunità e insuccessi, tecnologia e intelligenza artificiale. Con un prezioso consiglio alle nuove generazioni che si affacciano alla musica elettronica.

L’intervista a Suzanne Ciani

Come è nato il tuo interesse per la musica?
Sono cresciuta in una grande famiglia di origine italiana, cinque sorelle e un fratello. Poiché mio padre era italiano (all’antica, ndr), tutto ciò che desiderava per le sue ragazze era che si sposassero. Abbiamo frequentato buone scuole, ricevuto un’adeguata istruzione, liberi di scegliere cosa fare, senza pressioni. Non pensava che noi donne diventassimo dei professionisti o medici come lui. A sorpresa, lo siamo diventate tutte, tra architetti, ingegneri, compositori, artisti, pittori.

Io ho studiato musica. Amavo la musica. Avevamo un grande pianoforte Steinway in casa e io mi sedevo lì giorno e notte suonando Chopin. Ho imparato a leggere la musica da sola. Ma al liceo alla Longy School of Music ho dovuto ricominciare tutto da capo perché non sapevo cosa fosse una scala. È stato però importante per lo sviluppo artistico del mio linguaggio imparare da autodidatta, senza persone che mi dicessero cosa fare o non fare.

Come hai conosciuto Don Buchla?
Mi pagarono per frequentare la scuola di specializzazione in California, dove la tecnologia era il fulcro. Lì incontrai Don Buchla. All’epoca c’era solo il Moog che era completamente diverso. Era popolare perché Bob Moog ci aveva messo sopra una tastiera per far capire alla gente che era uno strumento musicale. Buchla si rifiutò di farlo: la tastiera era il nemico perché la gente pensava che fosse uno strumento a tastiera e si perdeva tutto il resto. Lui invece voleva ottenere un puro controllo della tensione, feedback, uno strumento da performance con gestione spaziale.

Io andai allo Stanford Artificial Intelligence Lab dove lavorai con Max Matthews e John Chowning. Erano i germogli di questo nuovo concetto di musica elettronica. La visione specifica di Buchla era la performance dal vivo, perché quando suonavi in quadrifonia non potevi registrare. Potevi solo suonare, per questo circolano pochissime registrazioni. Una di esse, purtroppo a due tracce, è stata pubblicata col titolo Buchla Concerts 1975.

Per diversi anni hai smesso di usare il Buchla e ti sei concentrata sul pianoforte.
Il Buchla aveva dei problemi irrisolti. Nessun ingegnere a New York era capace di aggiustarlo. Metà dello strumento fu rubato. E in quel periodo, all’inizio degli anni ’80, proliferavano le aziende giapponesi di strumenti elettronici come Yamaha, Roland e Korg. Mi sono adattata, ho progettato i suoni per la DX7 di Yamaha e ho lavorato con quelle aziende.

Erano meno soddisfacenti del Buchla?
Era diverso, il Buchla era un sogno irrealizzato. Arrivata a New York aspiravo a una carriera concertistica e discografica con il Buchla. Ma non era il momento giusto. Quindi ho realizzato degli album in studio, registrando vari lavori per la Private Music e la Sony.

Hai mai subito sessismo lungo il cammino?
Nel mondo del cinema. Anche negli spot pubblicitari, dove però l’ho ignorato concentrandomi sul lavoro. Nell’industria cinematografica non ho fatto un film finché non sono stata assunta da una donna, Lily Tomlin. E a quel tempo, Verna Fields era a capo della produzione della Universal. E così, dicono, sono stata la prima donna a fare un film importante a Hollywood come compositrice, da solista.

Ho scoperto però che c’era un’altra donna negli anni ’40 di nome Elizabeth Firestone che scrisse la colonna sonora di un film. Davano lavoro a uomini senza valutarne le capacità. Noi donne pensavamo di non essere abbastanza brave. E così siamo diventate molto più brave. Le migliori. Eppure non riuscivamo a trovare lavoro. Ci è voluto tempo per capire che non dipendeva da noi, ma dal fatto che loro si sentivano a disagio nel lavorare con noi. Per fortuna le cose sono cambiate, ora ci sono più donne e opportunità nell’industria dell’intrattenimento.

Cosa suggeriresti alle ragazze che si avvicinano alla musica elettronica oggi?
Direi loro che in quanto donne abbiamo un vantaggio: un modo diverso di rapportarci con le macchine rispetto agli uomini che approcciano gli strumenti modulari come se fossero motociclette. Guardiamo l’oceano, le forme d’onda e le trame sonore. Abbiamo maggiore sensibilità e un senso del ritmo diverso. Possiamo fare rumore come un uomo, ma anche dare potere alle nostre unicità senza cercare di imitare. Nel music business prospera l’imitazione, si guarda sempre indietro. Quando c’è una hit, nascono cloni.

Oggi i ragazzi sono più aperti, non guardano solo a ciò che è già riuscito, si avvicinano agli strumenti analogici con più libertà e curiosità. Il che per me è a dir poco un miracolo, perché quando ci provavo le prime volte, e non ci riuscivo, pensavo che fosse finita. Mi dicevo: “Beh, la quadrifonia è terminata negli anni ’70, tutta questa roba, gli strumenti, sono crollati”. E ora all’improvviso eccoci qui, grazie alle nuove generazioni. La tecnologia deve andare avanti, è la promessa di qualcosa di nuovo ogni giorno. Ma i giovani dicono: “Aspetta un attimo. Mettiamo i freni. Vogliamo vedere il vinile, le cassette, l’analogico”. Questo è inaudito nella tecnologia. Ma sono stanchi del digitale, del mouse, dei menu e delle interruzioni nel processo creativo. Vogliono fare musica in modo pratico, interattivo e nel presente.

È ciò che il modulare analogico ti consente di fare.
Per questo è importante mostrare, insegnare ai giovani come si fa. Anche se non ci sono molti Buchla in giro. Sono strumenti unici, ognuno può scegliere i propri moduli. Oscillatori, filtri, sequenze, generatori di inviluppo, tutte le unità di funzionalità si possono trovare in Eurorack. Per me è arte collaborativa. Noi suoniamo con gli strumenti che ci danno gli ingegneri, ma dobbiamo fargli capire cosa ci serve.

È quello che sto cercando di fare con la mia esperienza, in modo che i giovani sviluppino un senso di ciò che è possibile e di ciò che vogliono. Così inizieranno a richiederlo. Puoi mettere un modulo spaziale quadruplo nel Buchla, ma non puoi trovarlo in Eurorack. La prima volta che fu introdotta, la quadrifonia fallì perché non c’erano contenuti. Non si sapeva come usarla. Io insistevo, nessuno mi ascoltava. Ora è roba da marketing di settore, nel mondo della spazializzazione con Atmos, Apple e tutti quelli che commercializzano musica spazializzata. Ma dov’è il contenuto?

È ancora difficile pubblicare album di musica spazializzata?
Ho un nuovo progetto registrato ad Amsterdam con la Metropole Orkest, la migliore orchestra jazz al mondo. Questa registrazione l’abbiamo fatta all’apertura dell’Amsterdam Festival e dell’ADE. Io vorrei pubblicarlo, ma deve essere un album in quadrifonia e in vinile. Anche se oneroso, penso sia un’opportunità perfetta per un’etichetta discografica visto che c’è più interesse nella quadrifonia. L’ho proposta alla Deutsche Grammophon, ma alla fine credo che la pubblicherò da sola.

Cosa pensi dell’intelligenza artificiale applicata alla musica?
Bisogna guardare quanto ricicla l’AI. Suno può creare istantaneamente un country western, un rap, qualsiasi stile musicale. Suona familiare perché dentro ci hanno inserito di tutto, ma non siamo ancora preparati sugli aspetti legali. Abbiamo sviluppato il diritto d’autore, che non era una cosa ovvia. Era astratto, ma l’abbiamo codificato e ha funzionato. Dobbiamo fare lo stesso con l’AI. Dall’altra parte, devo dire, è molto divertente. Mia nipote ha preso le poesie di sua madre e le ha fatte cantare in modo professionale. È strabiliante quanto suonino bene. Non dobbiamo fermarla, solo tenerla sotto controllo. Quando c’era lo streaming gratuito illimitato io, come artista discografica, non avevo alcun desiderio di fare un disco. Perché avrei dovuto dar via la mia energia creativa, il mio tempo, la mia vita in cambio di un “che bello, grazie”? Siamo professionisti (della creatività) e come tali meritiamo rispetto.

Articolo di Gaetano Scippa

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