Interviste

“Urban Impressionism”, il pianoforte di Dardust nel cemento delle periferie metropolitane

Venerdì 8 novembre è uscito il nuovo album “solista” di Dario Faini, altro capitolo di un’ormai ricca discografia di musica strumentale di pianoforte

Autore Federico Durante
  • Il9 Novembre 2024
“Urban Impressionism”, il pianoforte di Dardust nel cemento delle periferie metropolitane

Dardust (foto di Emilio Tini)

Fra i grandi stili architettonici del Novecento, il brutalismo è forse il meno compreso, perlomeno da parte della gente comune. Anche perché in genere – senz’altro contro le previsioni dei grandi protagonisti del movimento – è associato a un contesto di degrado urbano e sociale. Eppure ha una qualità innegabile: questi colossali edifici di nudo cemento armato dalle forme disturbanti non possono passare inosservati, non puoi fare a meno di guardarli. È un’estetica potente, e Dardust – che ha dato questo imprinting visivo e semantico al suo nuovo album di pianoforte Urban Impressionism – non è il primo artista a sfruttarla, ma di certo è un’associazione inusuale per la musica strumentale, di solito più legata a un’idea di natura incontaminata.

Urban Impressionism è uscito venerdì 8 novembre via Sony Masterworks / Artist First e segna un notevole cambio di rotta rispetto al precedente lavoro “solista” Duality. Laddove quello era all’insegna di una netta separazione fra ispirazioni classiche ed elettroniche, questo lascia intuire un’idea di unitarietà, di ricomposizione. Laddove il live di Duality era uno show massimalista fino all’eccesso, per i concerti di Urban Impressionism Dardust promette essenzialità.

In un certo senso siamo ancora nell’arena dei tanti dualismi che caratterizzano Dario Faini, uno dei più poliedrici talenti del nostro panorama musicale: grandeur e minimalismo, classica ed elettronica, musica colta e popolare, produttore multiplatino e compositore di musica strumentale. Conversare con lui è sempre qualcosa di più di una semplice intervista promozionale: per questo non ci siamo lasciati sfuggire l’occasione.

L’intervista a Dardust

Fin dal brano d’apertura, che è anche la title track, si avverte qua e là un certo virtuosismo al pianoforte che forse era meno presente negli altri album, a livello sia di tecnica che di arditezza di certe progressioni armoniche. Hai voluto osare di più da questo punto di vista?

Sì, volevo mettermi alla prova. Perché poi quei pezzi li devo suonare dal vivo, e per me i live sono sempre una grande sfida: so che devo avere dei momenti “pericolosi”, e una volta che li vinco mi appagano.

Detto ciò, sicuramente c’era la voglia di creare quell’impressione, quella sorta di ouverture magica, con quei colori che provengono dal simbolismo musicale (c’è una reference a I giochi d’acqua della Villa d’Este di Liszt).

Però mi immaginavo un tripudio di palazzi: a Parigi andavo in queste periferie e vedevo degli scenari incredibili all’alba. Era stupendo. È l’inizio di un nuovo viaggio, raccontato con questi colori e questi arpeggi magici, sognanti.

In che senso questa è una musica “urbana”, di città? Peraltro il simbolismo, da Baudelaire in poi, fu un movimento profondamente “metropolitano”.

Certo, così come gli impressionisti misero al centro scene di vita urbane, luoghi di piacere, sale da ballo. C’era il mondo cittadino, non temi sacrali o mitologici.

Questo disco è urbano perché parte dalle periferie, dal mio primo imprinting creativo. Nascendo a crescendo in un luogo “ai margini”, in un certo senso bidimensionale, io creavo una sorta di realtà aumentata con l’immaginazione. Quella è stata la mia prima scintilla creativa.

La matrice artistica è stata andare fisicamente in alcuni luoghi: non quelli degli impressionisti ma nelle periferie, perché volevo simbolicamente rappresentare quelle forme, naturalmente a modo mio. Sono veramente tredici “impressioni”, non c’è una traccia guida dal punto di vista compositivo.

I riferimenti al brutalismo sembrano una costante di questo disco: perché questa fascinazione per un movimento architettonico così controverso e poco capito?

Dagli Espaces d’Abraxas ai palazzi di Créteil, ci sono luoghi di periferia che sono davvero d’impatto, nel bene e nel male. Mi piaceva l’idea di riscoprire il bello anche laddove il bello apparentemente non c’è. Sono palazzi dove i materiali grezzi sono esposti, non hanno le classiche facciate ornamentali degli altri stili architettonici, non c’è l’elemento decorativo fine a se stesso. È cemento grezzo, è la funzionalità portata a facciata.

Sono palazzi che si mettono a nudo, così mi piaceva l’idea di mettermi a nudo anch’io sulla cover, facendo vedere le “interiora” del pianoforte. Volevo far emergere la mia creatività, le mie emozioni, senza filtri o abbellimenti – e ne ho usati tanti in passato, culminando con Duality, che era un mega-show multisensoriale.

Pensando a un altro grande stile architettonico del Novecento – il minimalismo – è facilissimo trovare le sue declinazioni musicali. Ma esiste un corrispettivo musicale del brutalismo? Forse è più semplice trovarlo nei Kraftwerk o nell’industrial che non nella musica strumentale di pianoforte.

Vero. Nel mio album c’è Le Bolero Brutal, che si potrebbe accostare al brutalismo. Ma è più l’aspetto visual che si abbina all’ascolto. Siamo in un’epoca in cui l’aspetto visuale non può essere scorporato da quello musicale, è quello che poi fa il “crash”.

La musica minimalista pianistica contemporanea è spesso associata ai suoni naturali, al new age, al sottofondo. A me invece piaceva l’idea di buttare il pianoforte nel contesto urbano, che è quello da cui tanti di noi vengono.

Dalle periferie arriva un rinnovamento del linguaggio, dell’estetica delle arti – pensiamo all’hip hop e ai graffiti. Dai luoghi liminali, dove ti senti escluso e ai margini, c’è un caos, un ribaltamento delle regole, che porta spesso a un rinnovamento dell’arte.

Mi pare comunque di capire che tu – per quanto ne sia influenzato – non abbia un culto assoluto del minimalismo, giusto?

No, perché brani come Vértige e Urban Impressionism non hanno nulla a che vedere con il minimalismo. Neanche Nocturne of You, che è quasi romantica.

Dardust - intervista Urban Impressionism - foto di Emilio Tini - 3
Dardust (foto di Emilio Tini)

Le tracce contengono campionamenti di suoni di città registrati a Parigi, New York e Londra, che comunque non sono mai una presenza invadente. Raccontami questa attività di “field recording”, come si dice in gergo, e l’utilizzo di questi sample all’interno dei brani.

Sono spesso utilizzati come sfondo della traccia, arrivano qua e là, ci sono delle voci che appaiono in background, ci sono suoni di clacson, artisti di strada. Comunque l’approccio ritmico dei sample emergerà molto di più nel live.

Presentando Urban Impressionism hai detto che “tutto è nato da un’analisi delle strutture compositive di Brian Eno, Debussy e Steve Reich”: mi dici qualche parola su come ciascuno di questi tre grandi ti ha ispirato come compositore?

La musica di Brian Eno mi piace molto nell’accezione dell’ambiente. L’idea di creare uno spazio, una soundtrack per un luogo, il rapporto fra spazio e tempo della musica mi hanno sempre affascinato molto. Steve Reich è stato il primo compositore a utilizzare in maniera innovativa i loop e creandoli anche organicamente. È stato un precursore in questo. Infine di Debussy amo i colori armonici, il fatto di non dare mai una mappa precisa della tonalità, di creare una trama sognante. Questo mi ha sempre aperto uno scenario magico.

Debussy peraltro negli ultimi dieci o quindici anni ha avuto un enorme revival, anche a livello di gusti del grande pubblico: Clair de Lune è conosciuta quanto le canzoni di Sanremo. Cosa rende la sua arte così universale e senza tempo?

La magia, l’aspetto sognante. Il tema di Clair de Lune poi è così riconoscibile… Anche se si dissolve subito, lo senti solo all’inizio e riappare alla fine, il resto è un viaggio in cui perdi i riferimenti spazio-temporali.

Parlando di Golden Cage hai detto: “Questo pezzo rappresenta la mia fuga dalla gabbia dorata della fama e del successo come produttore pop”. Dalle tue parole sembra che queste due anime – produttore pop e compositore di musica strumentale – si dibattano una contro l’altra dentro di te: è così?

In verità vanno a braccetto, una aiuta l’altra. I colori e il coraggio che scopro quando sono Dardust poi li porto dall’altra parte. Ho centellinato le produzioni perché dovevo dare valore al mio percorso strumentale. È un percorso a cui ho sempre dedicato il 30% del mio tempo ma che miracolosamente è sempre cresciuto. Quindi dovevo provare a dare il massimo a un progetto fuori dai canoni del tracciato mainstream ma che può arrivare al pubblico. Ci vuole tempo.

A marzo ti esibirai all’HangarBicocca e alla Nuvola di Fuksas, due location perfettamente in linea con il concept “architettonico” dell’album. Lo show di Duality era molto spettacolare e massimalista: quello di quest’album come sarà?

Tutto il contrario: minimalista, non ci saranno colori, solo luci bianche, sarà tutto incentrato sul disco. Parlerò fra un pezzo e l’altro, cosa che non ho mai fatto nei live, raccontandomi. Spesso è più facile toccare le emozioni del pubblico se gli dai meno ma con più intensità.

Ascolta Urban Impressionism di Dardust

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