Indie

Franco126, dalla scalinata ai palazzetti senza “Nessun perché”. L’intervista

Esce Multisala, il secondo album di Franco126. Ce l’ha raccontato. Adolescenza, paure, malinconie di un cantautore schivo e agrodolce

Autore Silvia Danielli
  • Il23 Aprile 2021
Franco126, dalla scalinata ai palazzetti senza “Nessun perché”. L’intervista

Franco126, foto di Beatrice Chima

L’impressione che dà Franco126 a chi non lo conosce è di essere quell’amico carismatico che tutti ascoltano in gruppo ma che non ama particolarmente mettersi in mostra di sua volontà. In molti lo cercano (e infatti Franco126, o come lo chiamano tutti Franchino, ha una serie infinita di collaborazioni in curriculum da Noyz Narcos a Tommaso Paradiso), lui risponde volentieri, ma non tiene banco per tutta la serata a disquisire di qualsiasi argomento.

Pare perfino strano che possa vestire i panni della rockstar navigata, come uno Sting o un Ligabue per dire, quando a novembre prossimo sarà protagonista di due importanti live al Palazzo dello Sport a Roma (il 5) e al Mediolanum Forum di Assago – Milano (il 10). Ma Franchino o Federico (il suo vero nome, Bertollini il cognome) ce la farà ovviamente, come riesce a rispondere alle domande durante un viaggio in treno per raccontare il suo nuovo album Multisala – il secondo dopo Stanza singola del 2019 – che esce oggi per Bomba Dischi/Island.

Intanto, ricordo vagamente che l’ultima volta che lo avevo sentito al telefono mi aveva detto che forse solo sua mamma lo chiama Federico: «Anche mio padre e sua moglie. Per tutti gli altri sono Franchino». Qui trovate un’anticipazione dell’intervista che troverete sul numero di maggio di Billboard Italia.

Come va l’ansia da prestazione?

Bene. Ne ho un po’, come è normale che sia. Ma sono talmente impegnato con la promozione che mi distraggo parecchio. Continuo a ripetermi che ormai non ci posso più fare niente, quindi è inutile agitarsi.

Fino a quando potevi ancora fare qualcosa?

Inizio marzo, poi abbiamo chiuso tutto.

Doveva uscire molto prima Multisala?

Sì, non tanto per il Covid quanto perché non ci sentivamo mai soddisfatti della produzione. Quella di Stanza Singola, sempre con Ceri, è andata più liscia. Per Multisala non era mai “buona la prima”. Abbiamo rimesso mano ai pezzi diverse volte.

Si capisce che Multisala è il proseguimento di Stanza singola ma i brani sono molto più vari e mi sembra che abbiate calcato ancora di più i riferimenti anni ’80.

Certo, c’è un brano totalmente anni ’80: Ladri di sogni. Per il resto è molto variegato come suono: c’è anche un po’ di bossa nova con Vestito a fiori, un pezzo in stile cantautorato italiano, Maledetto tempo, i miei classici chitarra e voce che sono un po’ la mia cifra stilistica come Blue jeans e Lieto fine, le canzoni più up-tempo, Miopia e Nessun perché. C’è un po’ di tutto. Il mio primo album forse era soltanto oscuro, sad. In questo credo di aver messo più colori, anche se rimane piuttosto coeso perché la squadra è sempre la stessa. Io e Ceri.

Ognuno di noi ha una causa persa, no? Tipo quella relazione che sai bene che deve finire

Quando lo hai scritto? E quanto ha influito il lockdown?

Una prima parte è stata scritta dall’estate del 2019 fino al 2020, poi è stata rimaneggiata sicuramente. Anche l’idea attorno a cui ruota il concept è stata concepita molto prima di questo periodo. Si intitola Multisala non perché i cinema sono chiusi e mi manchino che è una cosa peraltro vera perché è il luogo dove si può gustare meglio un film in assoluto, senza distrazioni.

Ti manca di più il cinema o i concerti?

I concerti! Mi piaceva anche fare le comparsate al live di un amico o la situazione di aggregazione che si creava, era divertente. Il primo lockdown mi ha capovolto completamente gli orari, andavo a letto alle 5, mentre adesso sono molto più sereno e vado a letto prima. Il lato positivo è che puoi dedicarti a quello che ti piace. Alla fine ti abitui a tutto, i miei amici poi abitano vicino a me e ho cercato di vederli per quanto possibile.

Abiti ancora nella zona della scalinata che collega viale Glorioso a via Dandolo con i 126 gradini (da qui il nome della crew 126 ndr)?

Sì, ho sempre vissuto a Monteverde, sopra Trastevere, quartiere super tranquillo, residenziale, che adoro.

Franco126 non rinnega il suo passato di riferimenti all’attualità come in “Polaroid”

Hai già parlato del fatto che hai voglia di staccarti dal riferimento continuo all’attualità per cercare di diventare più universale. Cifra stilistica che aveva caratterizzato soprattutto i tuoi brani con Carl Brave. Ma non pensi che quello stesso particolare vi aveva fatti conoscere a tutta Italia, da Roma a Milano e che magari tra qualche anno potrebbero farci rivivere in pieno questi periodi?

Certo, magari tra 20 anni i riferimenti potrebbero far rivivere dei momenti, però a noi proprio, e soprattutto per un’operazione nostalgia. Magari a dei ragazzi che nasceranno dopo invece non diranno nulla perché non hanno vissuto le stesse cose. Ora preferisco parlare in linea generale. Come in Che senso ha dove dico: “Che senso ha continuare a difendere le cause perse/ far finta che le cose siano come sempre/ quando è cambiato tutto”. In molti lo hanno letto come un messaggio rivolto a questo specifico periodo in cui si è diffusa la pandemia, mentre invece non è assolutamente così.

Si può rivolgere a qualsiasi momento: a chi non capita di portare avanti delle cause perse pur sapendo benissimo che lo sono? Sia nelle relazioni d’amore che d’amicizia. Secondo me aprire la scrittura può aiutare molto. E poi in questo album ho voluto ispirarmi a un genere di cantautorato italiano che non ha mai utilizzato i riferimenti troppo specifici. Non rinnego niente: magari un giorno tornerò a scrivere con i riferimenti precisi come avevamo fatto in modo massiccio in Polaroid, appunto. A molti manca quella scrittura. Però credo che quel filone sia fin troppo abusato e si sia esaurito. 

A proposito di cause perse citate in Che senso ha, credi di portarle avanti personalmente?

Certo, come tutti. Senza scendere nel dettaglio, ognuno di noi nel suo privato vorrebbe che le cose andassero diversamente anche se sa che ciò non accadrà.

E a livello più generale e magari politico? Anche se tu hai scelto di non parlarne mai nei tuoi testi.

Diciamo che, come molti della mia generazione, sono piuttosto disilluso. Faccio fatica a entusiasmarmi agli argomenti politici. Son sicuro che ci siano anche uomini politici validi ma alla fine preferisco non affrontare questi temi.

Franco126: «Ho paura di crescere ma sto meglio di prima. Sono meno inquieto»

Sembri una persona davvero tranquilla che non ama stare troppo sotto i riflettori: quanto ti pesa doverti esporre? Fare interviste, foto, essere riconosciuto per strada? Anche se avevi detto che la fama non ti ha cambiato più di tanto.

Abbastanza. Io amo stare in studio di registrazione ed esibirmi in concerto, tutto il contorno cerco di farmelo piacere in modo coerente con il mio mondo. So, per esempio, che le foto influiscono parecchio su tutta l’estetica del progetto e non sono certo secondarie. Anche la promo è necessaria ma mi mette un po’ d’ansia. Poi ci sono persone che riescono a metterti a tuo agio e altre meno, come è normale che sia.

Le tue abitudini sono rimaste le stesse comunque?

Certo, sono sempre stato così, abitudinario, anche prima di fare musica. Infatti, non andando per locali o in discoteca è difficile anche percepire che le persone ti vedano in maniera diversa da prima. E poi che dire, i fan che possono esserci in quartiere si sono stancati di chiedermi la foto: ormai dopo una volta, son sempre io.

In Maledetto tempo racconti anche della tua paura di crescere: che adolescente eri?

Credo che lo riassuma bene Stay Away, il pezzo che ho scritto con Ketama126, Side Baby. Ero scuro, taciturno, sulle mie. Più o meno come sono adesso anche se ero molto più inquieto di ora. La cosa positiva del crescere è che impari a conoscerti meglio e a capire cosa vuoi. Penso che, dalla mia generazione in poi, il futuro quando sei adolescente venga visto sempre come un enorme punto di domanda. Il lato negativo è che prima ti vivevi le cose in maniera molto più intensa. Io vivo meglio adesso ma la malinconia è inevitabile.

A proposito di malinconia: Vestito a fiori è un omaggio a Careless Whisper di George Michael?

Non volutamente, ma è così, hai ragione. Pezzo incredibile peraltro, quello di George Michael. Vestito a fiori è un omaggio voluto a Battisti, quello sì.

Il feat. con Calcutta, l’unico presente in “Multisala”

Nell’album non ci sono feat., a parte Calcutta in Blue jeans, oggi sembra un atto politico: è così?

Non proprio un atto politico però volendolo portare live mi sono chiesto come potessi fare con 200 feat. quindi ho preferito non averli. Mi piace tanto collaborare ma penso abbia più senso nei dischi rap. E poi non mi sono venute in mente delle collaborazioni spontaneamente. Anche Blue jeans all’inizio doveva essere solo un brano mio poi però era parecchio lungo, lontano dal mio modo di scrivere. Quando è uscito il nome di Calcutta ho pensato che fosse perfetto e secondo me ha valorizzato davvero tanto la sua parte.

Sinceramente ti aspettavi che andasse di più in streaming?

No, per un giorno è stato anche al numero 1 di Spotify, è diventato disco d’oro in due mesi. Non è un pezzo stra-pop, dai, ha una melodia complessa e ha ottenuto quello che doveva. Forse Nessun perché pensavo andasse di più in streaming, però è un pezzo funky, up tempo, non è esattamente il mio genere. Da me la gente si aspetta altro, pezzi più complessi, io non sono bravo a scrivere hit immediate.

«Il mio mondo è sempre così: agrodolce»

L’album si conclude con Lieto fine: a te piace trovarlo nei film e nei libri?

Massì, perché no, dai, non è brutto trovarlo no?

Facciamo un gioco finale. Ti chiamano per fare dei feat. i tuoi artisti di riferimento ma devi scegliere tra due opzioni. La prima: Paolo Conte o Francesco De Gregori?

De Gregori. Ovviamente mi piacciono entrambi ma De Gregori è più affine al mio mondo. E poi Paolo Conte ha una scrittura tale che difficilmente riuscirei a immaginarmi di potermici avvicinare.

Immaginiamo che risorgano: Franco Califano o Lucio Battisti?

Califano. È sempre stato il mio mito.

Dici che la gente si aspetta sempre dei brani malinconici da te: secondo te qual è il più triste di Multisala?

Forse Vestito a fiori è il più triste, parla un po’ di depressione in fondo, molto oscuro nonostante il ritmo. Io non credo che siano mai troppo pesanti perché c’è sempre un risvolto speranzoso, come del resto in quelle allegre c’è il lato più malinconico. Anche Miopia parla di un incontro tra due persone però ci si immagina già quando le cose non andranno, in Blue Jeans invece si dice che in fondo va bene così. Il mio mondo è sempre così: agrodolce.

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