Benvenuti al “Mystic Motel” di Laila Al Habash, tra urban e cantautorato indie. L’intervista
Dopo l’EP Moquette, uscito all’inizio di quest’anno, la cantautrice romana ha pubblicato l’album d’esordio: dodici tracce prodotte da Stabber e Niccolò Contessa
La notte se la porta già nel nome (tale è il significato di “Laila” in arabo): non è quindi un caso che abbia impresso al titolo del suo primo album full length una dimensione di oscurità e mistero. Dopo il brillante appetizer dell’EP Moquette, uscito a marzo di quest’anno, Laila Al Habash – mamma italiana, papà palestinese – pubblica oggi l’album d’esordio Mystic Motel (Undamento / Believe). Ritroviamo confermato il formidabile tandem di producer composto da Stabber e Niccolò Contessa: l’estrazione hip hop del primo, la sensibilità cantautorale del secondo (mente – ricordiamolo – de I Cani, punto di riferimento di tutto l’indie pop italiano degli ultimi dieci anni) e la freschezza del songwriting di Laila formano un’alchimia irresistibile, sin dal primo ascolto.
L’immagine del motel è densa di significati: è un luogo di peccati inconfessabili, molto legato alla strada, alla notte. In che senso queste tue dodici canzoni formano le stanze di un motel? E perché è “mistico”?
È un concept che mi piaceva molto. Un po’ per i motivi che hai già detto, nel senso che è un posto pieno di segreti ma allo stesso tempo di transizione, perché poi te ne vai. Mi piaceva dare questo gusto di strada, di asfalto, anche perché io vengo dalla provincia di Roma ed è una cosa che sicuramente mi caratterizzava. È mistico perché è un aspetto che sento molto mio: mi piace l’esoterismo, ciò che è misterioso.
Alla produzione in Mystic Motel ritroviamo confermati Niccolò Contessa e Stabber. Dobbiamo considerarli ormai i tuoi collaboratori di fiducia?
Certo, già da tempo! Oltre che produttori sono proprio degli amici.
Come lavorate insieme di solito? C’è una qualche separazione di “compiti” fra le cose che segue Contessa e quelle che segue Stabber?
Non parlerei di divisione di compiti. Ovviamente ognuno ha la sua specialità. Per esempio Stefano (Stabber, ndr) è un drago con le batterie, ha quella mano pesante sui bassi che magari Niccolò non ha. Sui testi, sia Niccolò che Stabber mi danno una mano, per sfumature diverse. Per esempio Stabber mi aiuta a dire le cose in maniera più cattiva, più efficace, proprio come le barre del rap. Mentre Niccolò magari mi aiuta ad esprimere una frase in maniera più sintetica.
In Sbronza collabori con un artista conosciuto da tutti, cioè Coez. Com’è arrivata questa opportunità?
Avevo una demo fatta da me. Il merito è stato di Tommaso Biagetti, uno dei miei manager, che lavora anche con Coez. L’ha ascoltato e mi ha detto: “Ma questa mandala a Silvano (vero nome di Coez, ndr), potrebbe piacergli molto”. Per me era assurdo, invece Tommaso è stato molto bravo a intuire questa cosa. Io ero a Milano, Coez a Roma e abbiamo scritto la canzone in una notte via Whatsapp.
Nella tracklist di Mystic Motel c’è un brano dedicato all’isola di Ponza. C’è una ragione in particolare che ti lega a quel luogo o è solamente lo scenario in cui si svolge la storia che racconti nel pezzo?
Entrambe le cose. È uno dei miei luoghi preferiti. Ogni volta che vado succede sempre qualcosa di catastrofico che però poi mi fa rivalutare le cose in modo positivo. È un’isola a cui sono molto legata innanzitutto perché è incredibile: un po’ Sardegna e un po’ Grecia, ma a due ore da Roma. In passato era un’isola piuttosto esclusiva: negli anni ’50 e ’60 ci andavano attori e modelle.
Fotoromanzi è piuttosto diversa dagli altri brani di Mystic Motel, molto soffice e minimale, di quasi solo pianoforte. Mi racconti un po’ com’è nata?
È nata da un’esperienza che per un mese e mezzo mi ha rovinato la vita e che però ha prodotto quella canzone, che per me è una delle più belle dell’album. Nasce per pianoforte e voce, poi l’abbiamo riarrangiata con gli archi. La take che senti nel disco è la prima che abbiamo fatto in studio. Ho provato a farne altre perché sentivo tanti errori, ma la migliore rimaneva quella, anche con i suoi piccoli difetti.
Visto che sei stata il volto della playlist Equal di Spotify qualche mese fa, dal tuo punto di vista qual è il gender gap ancora da colmare nella musica?
È una domanda con tante risposte. Il gender gap non è da collocare solo nella musica. Una cosa che mi fa molto sorridere è che, essendo una ragazza, gli altri ti facciano sentire “questionable”, come si direbbe in inglese. Come a dire: “Sì vabbè, ma dimmi come hai fatto davvero. Chi ti scrive i testi? Ci sono Contessa e Stabber: allora te le fanno loro le canzoni”.
Le persone fanno molta fatica a capire che una ragazza può essere autrice, musicista e interprete delle sue cose. A un uomo non chiedono queste cose. È come se in un viaggio in macchina per te ci fosse ogni dieci metri un posto di blocco in cui ti chiedono di vedere i documenti. Ma è uno sforzo che va fatto a livello collettivo: una ragazza che fa l’ingegnere è la stessa cosa. Bisogna iniziare a scardinare tutta la prospettiva maschiocentrica che c’è nel mondo del lavoro.
Però comunque la musica può mettersi alla testa di questa battaglia culturale proprio perché storicamente è sempre stata portatrice di importanti cambiamenti sociali.
Certo. Se da piccola non avessi ascoltato il riot grrrl, se non avessi conosciuto Kathleen Hanna e le Bikini Kill, anche per me sarebbe stato magari difficile immaginarmi su un palco con delle donne. Come sempre servono esempi che si espongono e fanno vedere che questa cosa si può fare. Sono super contenta che nei Måneskin la bassista sia Victoria De Angelis, perché chissà quante ragazzine adesso vorranno studiare il basso. È una battaglia che io porto avanti col sorriso. È una cosa culturale e non mi piace incazzarmici più di tanto. Quelli bravi, che sanno quello che fanno, stanno zitti, perché non serve aggiungere altro.
Ultima domanda: a Sanremo andresti mai?
No, non mi interessa, almeno per ora. Prima mi piacerebbe fare il Coachella o il Primavera Sound!