Il rock and roll, Dio, il suicidio: Francesco Bianconi dei Baustelle racconta “Elvis”
Abbiamo incontrato il frontman per conversare di temi importanti, mentre scorre la musica spesso scintillante del nuovo album, sorprendentemente fresco e ottimista nel sound, come avevamo già intuito dal singolo “Milano è la metafora dell’amore”
Los Angeles suona come un pezzo degli Strokes di Is this It. Gran Brianza Lapdance di Cuori Infranti è puro rock’n’roll sexy. Betabloccanti Cimiteriali Blues è da suonare in un DJ set tra un brano dei Pulp e uno dei Supergrass, trascinante, un rollercoaster di emozioni dove duettano perfettamente Rachele Bastrenghi (molto presente nell’album, bene) e Francesco.
Elvis (BMG) è un gran bell’album dei Baustelle. Queste sono canzoni da suonare in auto con il gomito fuori dal finestrino, ed è un buon segnale con la primavera che è già sbocciata. Poi non mancano i momenti di grande intensità e intimità che negli anni la band ha saputo cesellare con arte e gusto.
A questo punto lascio spazio alla nostra conversazione, perché parlare con Francesco è sempre una bella esperienza.
L’intervista a Francesco Bianconi dei Baustelle
Dopo aver elencato puntigliosamente i venti synth utilizzati nel corso delle registrazioni del precedente album, in Elvis si trovano un’armonica a bocca, il sax, una sezione fiati. Poi c’è un inedito terzinato con cambio di velocità, un accenno al glam, un tocco di Brian Wilson. Aleggia una voglia di essere fuori dal tempo musicalmente, mentre i testi parlano del contemporaneo, dei vizi, dei desideri e dei fallimenti. E di Milano. Insomma, un disco rock’n’roll d’autore.
Ci sto nella definizione. Ma mi spaventa sempre un po’ la categoria “d’autore”. Perché nel mondo delle idee e del lavoro artistico tutto dovrebbe essere d’autore. Posso oggi interpretare la parola “autore” come sinonimo di “adulto”, anche se il rock and roll storicamente dovrebbe associarsi all’idea della giovinezza.
Noi Baustelle non lo siamo più. Allora spero che almeno abbiamo preso lo spirito di quella spensieratezza rock and roll. Ecco, per Elvis preferisco essere più vicino alla definizione di disco rock and roll che d’autore…
Quando ti dico la parola “autore” la associ immediatamente al nostro cantautorato più tradizionale o piuttosto a quel tipo di artista che firma con il suo stile un genere? Perché io pensavo più a uno Scott Walker o a un Burt Bacharach che a un Francesco Guccini…
Ecco, tocchi un tasto delicato perché qui da noi la musica d’autore sta per quel tipo di musica dove i testi son visti come delle poesie. Secondo me è sbagliato perché talvolta i testi delle canzoni hanno sì pari valore delle poesie ma non funzionano semioticamente proprio come delle poesie.
Mi piace pensare a quel tipo di autore che va alla ricerca, che sperimenta. Mi approccio alla creazione, cercando di prendere delle vie meno scontate, meno rassicuranti.
Noi, come Baustelle, questo approccio lo applichiamo da sempre, organicamente, nei testi ma anche nella musica. Sperimentare per noi è unire per l’appunto le spensierate schitarrate di un certo rock con dei testi che troveresti proprio in una canzone dei più classici cantautori.
Trovo geniali e sperimentali certe cose di Umberto Tozzi che in pochi assocerebbero alla canzone d’autore, o gli ABBA… Ci sono tanti esempi che potrei fare.
Ascoltando quello che dici mi vengono in mente gli Auteurs di Luke Haines. Lo so che qui in Italia sono pochissimo conosciuti ma quello che fecero loro – come in parte i più celebrati Pulp – è proprio quello: associare i cliché del rock con certi arrangiamenti e una purissima sperimentazione lirica.
Li conosco e li apprezzo, è un’ottima reference. Molto sottovalutati.
Torniamo a Elvis. Sin dalla prima traccia si sente il tocco di Enrico Gabrielli, che ha arrangiato archi e fiati. Vi ha offerto nuove strade da percorrere che non pensavate?
Enrico è uno dei musicisti che stimo di più, lavoriamo insieme da tempo. Quando penso a quell’approccio di cui parlavamo, per noi Enrico è un riferimento su cui contare nel viaggio delle nostre ricerche di strade nuove.
Per Elvis è stato bravo a far scintillare e rendere un po’ glam questo lavoro. Enrico è capace di passare da un nostro lavoro come Fantasma o al mio da solista, Foverer, a un disco totalmente differente come Elvis ed essere sempre molto duttile. Ma non fraintendete la sua duttilità come la classica abilità del turnista, del session player. Io comunque gli ho dato delle idee per gli archi che avevo sviluppato in fase di pre-produzione.
Il brano più personale è forse Il Regno dei Cieli. La sfera religiosa – anche se si è atei, e tu lo hai dichiarato in alcune interviste – ci tocca comunque. Riaffiora nei pensieri, riemerge nelle difficoltà e anche nei momenti euforici.
Il testo è, come dire, una personale summa teologica, ti racconto la mia idea di Dio. Continuo a ritenermi ateo ma sono anche una persona che vive stando sempre alla ricerca di un senso. L’atto di ricercare un senso della nostra vita significa tendere verso un qualcosa. È un buttarsi fuori dal sé, mi pone in una sorta di estasi, è quasi metafisica.
Il Regno dei Cieli è anche un flusso di coscienza, una sfilza di ricordi lontani. Mi sono immaginato il paradiso – chiamalo come ti pare – come una sorta di smalto che Dio offre agli uomini per coprire il vuoto. È più un paradiso artificiale. Mi ispiro altresì ad alcuni passi del poema L’Angel di Franco Loi (grande poeta, scomparso a 90 anni nel 2021, ndr).
Non so perché ma associo Il Regno dei Cieli a Sto Mettendo Ordine dei Coma Cose. Lì Fausto Lama pesca nei ricordi dalla sua carriera, tu più dalla tua intimità. Visto che vi conoscete bene, vi siete confrontati su questo tema dei ricordi?
Non ne abbiamo parlato. Peraltro lui è venuto a cantare in una sorta di coro gospel, proprio in questa canzone, ironia della sorte (sorride, ndr). Non sono neanche accreditati in Elvis: in quel coro ci sono lui, Lucio Corsi, Antonio Di Martino e altri amici.
A un certo punto della vita, c’è bisogno di fare ordine, come recita il titolo della canzone dei Coma Cose. Se fai mestieri che hanno a che fare con il caos e con la sua manipolazione, serve fare un po’ di ordine. Dalle cose materiali alla tua vita professionale, e ovviamente tra i tuoi ricordi. Io poi ne ho davvero bisogno di fare ordine.
Mi fai pensare che bisognerebbe spesso fare ordine anche nella massa di informazioni che ogni giorno ci arrivano addosso.
Faccio molta fatica a informarmi oggi. I media sono diventati un tamburo così rullante che faccio fatica a distinguere una verità – se davvero esiste una verità, adesso vale tutto…
Ti faccio anche un piccolo esempio che riguarda noi Baustelle. Mentre stava uscendo il singolo Milano è la metafora dell’amore aleggiava in rete questa notizia che Milano risultava in una classifica la città più inquinata del mondo. Ovviamente è scattata una polemica associando le due cose. Ora, a parte che la notizia è stata smentita, certo l’aria di Milano fa schifo lo stesso, perché innescare tutto questo?
Mi ha commosso l’ultima canzone, Cuore, grande interpretazione di Rachele. Un altro tema delicato hai toccato, il suicidio. A proposito di tossicità causata dalla troppa lettura di cronaca: non riesco più ad associare, anche solo per un istante, l’atto del suicido a un atto romantico. La prima cosa che associo al suicidio oggi è l’epilogo di qualcuno, quasi sempre un uomo che fa una strage familiare.
Una volta c’era il suicidio come atto di sfida e di rifiuto contro il mondo. Adesso, in un contesto dove impera il cinismo di massa che genera uomini soli e mai appagati, il suicidio è una conclusione che sa di fallimento. Peraltro Cuore prende ispirazione nel testo da un fatto di cronaca (una persona che si è buttata da un fotel milanese, ndr).
Ma tornando al tema del suicidio, bisognerebbe trarre ispirazione da una canzone di Franco Battiato con il testo di Manilio Sgalambro: Breve invito a rinviare il suicidio. Questo schifo di mondo non merita il tuo atto, tu sei superiore. Andrebbe letta e suonata tra i banchi delle scuole.