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“La Gente Che Sogna”, Lucio Corsi: «Le canzoni migliori sono quelle che mentono»

Un cantautorato che risente della lezione del glam pop anni ‘70, ma riletto alla luce di una sensibilità postmoderna, anzi, senza tempo

Autore Piergiorgio Pardo
  • Il21 Aprile 2023
“La Gente Che Sogna”, Lucio Corsi: «Le canzoni migliori sono quelle che mentono»

Lucio Corsi (foto di Tommaso Ottomaso)

Esce oggi (venerdì 21 aprile) La Gente Che Sogna di Lucio Corsi, il nuovo album di uno dei personaggi più creativi, atipici e nello stesso tempo accattivanti del nostro panorama cantautorale. Giovane, ma già con una carriera che annovera due ottimi dischi come Bestiario Musicale e Cosa Faremo da Grandi?, mentori del livello di Brunori Sas e Francesco Bianconi e il patrocinio di Sugar Music.

Il suo è un cantautorato che risente della lezione del glam pop anni ‘70, ma riletto alla luce di una sensibilità postmoderna, anzi, senza tempo. Insomma, uno di quei talenti ai quali è il caso di guardare con attenzione e curiosità.

Ascolta La Gente Che Sogna

Lucio Corsi - intervista - 2 - foto di Tommaso Ottomaso
Lucio Corsi (foto di Tommaso Ottomaso)

L’intervista a Lucio Corsi

Cominciamo dal titolo, che fa un esplicito riferimento al sogno, anzi, alla gente che sogna.  Sembra una dichiarazione programmatica, quasi una dedica, o mi sbaglio?
Si riferisce al desiderio di scoprire tutto ciò che ad occhi aperti, con uno sguardo attento e razionale, non si vede.

Per questo nelle note di copertina consigli all’ascoltatore di chiudere gli occhi?
Per la precisione dico che “basta credere agli occhi, anche quando si chiudono”.

Se seguiamo il tuo consiglio, quello di chiudere gli occhi, cosa può accaderci di bello?
Potrebbero esserci bellissime sorprese. C’è tanta realtà oltre a quella immediata che ci circonda. Le mie canzoni sono sempre nate dal mio rapporto con la natura, non in termini ecologici, ma come spazio appartato, in cui puoi, se lo desideri, sfruttare anche la noia. Quando ero ragazzo non sempre i miei genitori avevano la possibilità di portarmi in città. E allora trascorrevo del tempo da solo e mi annoiavo. Così ho imparato che annoiarsi serve tantissimo, perché nei momenti di vuoto le cose più vere e meno i visibili si prendono dello spazio per farsi presenti.

Mi sembra un modo di accostarsi alla scrittura molto diverso dal gusto attuale più diffuso.
Sono stanco di ascoltare canzoni che mi urlano nelle orecchie la realtà per come è, o per come la vediamo. Oggi, quest’anno, in questo luogo preciso. A me piace che la musica mi inganni. A un certo punto dico che le canzoni migliori sono quelle che mentono, cioè che non pretendono di dire la verità, né rimangono ancorate alla quotidianità e alle sue mode.

Per essere una persona così giovane mi sembra che tu viva molto anche la dimensione del ricordo.
Sì, anche di luoghi in cui non sono mai stato e di cui ricordo l’immagine che mi sono fatto nel tempo.

A proposito di questo, credo che dal tuo approccio con la scrittura emerga un’espressività che fa riferimento a più discipline artistiche. Me ne vuoi parlare?
Penso che sia insita in ogni persona la capacità, o se vuoi il bisogno, di rappresentare in modo tridimensionale le proprie idee. Sono figlio di un artigiano, ho visto tante volte mio padre dare forma agli oggetti. Il mio modo di fare musica risente da un lato di questa sorta di apprendistato. Dall’altro scaturisce dal mio amore per il glam-rock anni ‘70, che solo all’apparenza era una musica semplice e spensierata, mentre in realtà era raffinatissima e anche multimediale.

Non trovi che sia un pregiudizio riguardante in genere il pop, che può invece essere molto pensato, molto artistico? Penso alle canzoni di band come Electric Light Orchestra, anzi l’Astronave Giradisco mi ricorda le copertine di Out of the Blue e Discovery
Mi fa piacere che citi gli ELO, perché sono un ascolto che ho in comune con le persone che collaborano con me, Lucio Ottomano, i ragazzi della banda, con cui suono insieme dai tempi del liceo, e mi sembrano riferimenti appropriati per il nostro sound. Pop sì, ma che ambisce a delle soluzioni anche sorprendenti.

Tu ti sorprendi scrivendo e suonando?
Sì, molto. C’è un grande senso della scoperta in questo disco. Soprattutto perché ho avuto modo di approfondire degli aspetti che nei dischi precedenti stavo ancora maturando. E spero, in futuro, di sorprendermi ancora di più.

Lucio Corsi - intervista - 3 - foto di Tommaso Ottomaso
Lucio Corsi (foto di Tommaso Ottomaso)

La prima volta che ti ho visto dal vivo eri supporter dei Baustelle. Indossavi una lunga gonna e suonasti delle canzoni chitarra e voce seduto su uno sgabello alto con la tua acustica. Devo dire che rimasi molto colpito da come riempivi la scena a dispetto del set minimale.
Sì, quando ho iniziato avevo un’attitudine folk. Man mano le cose stanno cambiando.

Anche il tuo idolo Marc Bolan agli inizi suonava folk, e in un certo senso anche Bowie
Esatto. E un po’ sulle loro orme adesso sto pensando ad un tour elettrico, che preveda movimento e anche una reinvenzione degli arrangiamenti dei pezzi.

Parlando ancora di glam, mi sembra che il tuo approccio a quel repertorio sia in un certo senso post-moderno, nel senso che da un lato lo recuperi in modo filologico, dall’altro lo rileggi e arricchisci con soluzioni molto personali.
Il cantato in italiano credo sia la prima cosa a marcare la differenza. Di glam italiano ne esiste pochissimo. Forse qualcosa di glam si può trovare nei primissimi dischi di Renato Zero, tipo No, mamma, no!, o di Ivan Graziani, che sono comunque dei riferimenti per me. Ma penso che nel mio caso il binomio fra glam e testi sia più stretto e sistematico.

Nella tua musica comunque c’è anche un’attitudine internazionale. L’ultima persona che mi ha cantato un tuo pezzo era Natalie Merchant, una grandissima cantautrice, che il pubblico conosce anche per i suoi trascorsi con i 10,000 Maniacs. Sapeva a memoria Cosa Faremo da Grandi.
Wow, ne sono onoratissimo.

La copertina dell’album, che è come sempre molto gradevole, chi l’ha disegnata?
Mia madre Nicoletta, che non fa di professione la pittrice, ma dipinge i suoi quadri per me. Raffigura una ballerina, come già la copertina dell’album precedente. Mi sembrava che la figura della ballerina potesse rappresentare molto bene l’essenza della ispirazione del disco.

Per la leggerezza? Per l’inventiva? O per la delicatezza indiretta con cui racconti il mondo nelle tue canzoni?
Forse per tutte queste cose insieme e per tante altre, che magari dipenderanno dai desideri di chi ascolta.

Per descriverla, lo dici esplicitamente in copertina, ci sono volute 1425 parole. Come mai hai voluto precisarlo?
Ma sai, secondo me è meglio essere sempre chiari prima!

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