Musica

Kekko Fornarelli, quando il piano incontra la techno: «Suonare nei club? Sconvolgente»

Il prolifico pianista, dall’approccio fortemente crossover e dal lungo curriculum internazionale, quest’estate con il DJ Andrea Fiorito ha portato all’estero il progetto Aneke grazie al supporto del bando Export 2022 di Puglia Sounds

Autore Federico Durante
  • Il28 Novembre 2022
Kekko Fornarelli, quando il piano incontra la techno: «Suonare nei club? Sconvolgente»

Andrea Fiorito e Kekko Fornarelli (fonte: ufficio stampa)

Con un ritardo decennale rispetto al nord Europa, da qualche tempo anche in Italia è andata finalmente consolidandosi una piccola ma eccellente scena di “crossover piano music”, ovvero quegli artisti che contaminano con una produzione moderna (spesso flirtando con l’elettronica) le possibilità espressive del pianoforte tradizionale (di ascendenza classica o jazz). Dardust, Boosta, Alessandro Martire sono solo alcuni dei nomi più attivi su quel filone.

Ci aggiungiamo Kekko Fornarelli, pianista, compositore e produttore barese dal pedigree internazionale particolarmente avanzato (oltre 400 concerti in più di 60 paesi). L’approccio eclettico che lo caratterizza l’ha spinto naturalmente verso una collaborazione con un grande artista sempre pugliese ma di ambito completamente diverso: il DJ e producer Andrea Fiorito.

Insieme hanno dato vita al progetto crossover “Aneke”, in cui le parti jazzate del pianoforte del prim incontrano i beat techno del secondo. La scorsa estate, i due hanno avuto l’opportunità di portare Aneke in festival all’estero anche grazie al supporto economico del bando Export 2022 di Puglia Sounds (qui tutte le informazioni sui bandi 2023). Kekko Fornarelli ci racconta l’esperienza e lo stato dell’arte di questo filone al contempo moderno e tradizionale.

https://www.youtube.com/watch?v=PbKml_yNiuA
Come nasce il progetto Aneke? Con quale “metodo” avete approcciato un materiale musicale apparentemente così eterogeneo come la fusione di techno e piano jazz?

Il progetto nasce quasi dieci anni fa. Io ed Andrea ci conoscemmo poiché coinvolti entrambi da un altro noto artista pugliese, Nicola Conte, in un suo progetto. A lui (Andrea) piacque molto il mio approccio ai tasti bianchi e neri e alla musica in generale, e mi invitò subito ad improvvisare in un suo set in un festival techno. Iniziammo così a buttar giù idee assieme, nei nostri studi. Poi, avendo girato moltissimo, dal 2013 fino ai lockdown, ci siamo un po’ persi di vista per colpa mia. Ci siamo ritrovati ora.

Rispetto al metodo, non ce n’è mai stato uno vero e proprio. Da sempre, ascoltando con attenzione, si evince che le armonie più jazzy fanno parte delle produzioni anche più lontane, come la techno. È tutta una questione di vibrazioni, personale sensibilità e tentativi. Un po’ come degli chef, o degli architetti, della musica.

Hai portato Aneke a Ibiza e Berlino anche grazie al supporto di Puglia Sounds: perché è giusto che un ente pubblico sostenga attivamente la produzione musicale?

Il sostegno pubblico a produzioni musicali è un qualcosa che esiste da decenni, soprattutto fuori i confini italiani. Paesi come la Francia, la Svizzera e altri in Nord Europa, infatti, lo hanno da almeno 15-20 anni prima dell’Italia.

Personalmente ho una doppia visione, un po’ contrastante, rispetto alla cosa. Da un lato, ritengo sia giusto e fondamentale, in quanto le produzioni artistiche rappresentano un bene prezioso, un vero patrimonio di un Paese (o di una regione, come nel caso di Puglia Sounds) e, per questo, vanno sostenute e promosse.

D’altro canto, è pur vero che tutto questo meccanismo di sostegni e fondi ha un po’ sedato, negli anni, la qualità della proposta artistica in generale. Spesso, ci troviamo dinanzi a produzioni fatte per fatturare e rendicontare, più che per mere necessità espressive. Ed è un peccato. Un’occasione mancata che un giorno potrebbe tornarci indietro come un boomerang. Come in tutte le cose, il libero arbitrio è allo stesso tempo croce e delizia del nostro essere umani…

Quelle date si sono svolte in club che solitamente ospitano DJ: un tipo di location – immaginiamo – per te inusuale ma molto adatto al progetto, no? Che esperienza è stata da questo punto di vista?

Ammetto che sia stata un’esperienza sconvolgente, per me. Non solo nei club di Ibiza e Berlino, ma anche nei tre festival techno ai quali abbiamo partecipato. Senza dubbio è stato uno shock dal punto di vista dell’impatto sonoro, almeno per me. Sono letteralmente pazzi! Ho dovuto performare con dei tappi per l’abbassamento dei decibel, per non rovinarmi l’udito.

E la gente… praticamente ti è addosso. Al di là di un primo impatto strano, quasi di invasione, poi mi è piaciuto moltissimo. La musica dovrebbe rappresentare anche questo, e devo dire che nella techno, più che in altri generi musicali e nei rispettivi spettacoli live, questo aspetto di condivisione è decisamente più vivo, palese, nitido.

Che idea ti sei fatto del pubblico? Era il pubblico abituale dei club, quello che viene ai tuoi concerti più jazzistici o una via di mezzo?

Assolutamente no. Era pubblico proprio del mondo della techno. E ne sono contento, volevo fosse solo quello, per una mia esperienza personale, musicale e antropologica. A loro è piaciuto moltissimo vedere e sentire dal vivo qualcuno che suonasse, costruisse, le trame che li faceva vibrare e ballare. Beh, vedere migliaia di persone che vanno in un brodo di giuggiole è una bella sensazione. Diversa da quella ricevuta da pubblici più propri del jazz, o del crossover, ma altrettanto intensa, seppure da un punto di vista più godereccio.

Kekko Fornarelli e Andrea Fiorito dal vivo
Quello della contaminazione fra pianoforte ed elettronica è un filone che altrove, per esempio in nord Europa, trova terreno molto fertile ma in Italia è ancora poco sviluppato. Eppure il talento non manca e il successo di eventi come Piano City a Milano dimostra che un pubblico c’è: perché progetti del genere in Italia devono essere sempre visti come anti-commerciali?

Me lo chiedo anch’io da almeno quindici anni. Sono stato uno dei primi, qui, a contaminare il pianoforte con elettronica, con i sintetizzatori, i campioni, soprattutto nel jazz italiano. Non è stato facile. Va da sé che ho costruito una carriera prevalentemente all’estero e, onestamente, so anche di essere fortunato a poterlo raccontare.

Non saprei spiegarti le ragioni profonde di questa diffidenza, ma so per certo che i primi responsabili sono i musicisti stessi, me compreso. L’esperienza internazionale mi ha insegnato e raccontato tanto in questi quindici anni. La musica non è qualcosa che può essere inscatolato o arrestato nel suo processo di evoluzione. È uno specchio generazionale, socio-culturale.

Come si può pensare che il jazz mainstream, che rappresenta la voce di una certa etnia di un determinato periodo storico, lontano magari 50-70 anni, possa essere lo specchio della nostra generazione, o del nostro Paese?

Manca un mese al 2023. In Corea fanno concerti con gli ologrammi già da anni. Adesso i producer sono ragazzini tiktoker che lanciano campioni sugli smartphone. Si scrivono colonne sonore digitali emulando orchestre come quella della BBC sul proprio portatile… potrei fare centinaia di altri esempi. Vogliamo ancora restare legati a dei preconcetti?  Senza curiosità, senza apertura, non c’è scambio. Né crescita. Sarebbe il caso, e l’ora, di cambiare.

Cosa ci puoi raccontare dello spettacolo che hai portato all’Auditorium Parco della Musica di Roma?

Anthropocene è un concept e uno spettacolo messo su durante i lockdown. Non avendo la possibilità di poter suonare dal vivo con i miei musicisti, ho scritto un album in solo che raccontasse le mie personali riflessioni sul momento che stavamo vivendo, sull’impatto che noi esseri umani abbiamo avuto sulla natura, sul ruolo che stiamo giocando nell’evoluzione del pianeta.

Grazie a Puglia Sounds, in più, con un progetto Producers, un anno e mezzo fa realizzai un’anticipazione del concept con una performance digitale che trasmisi in streaming, Chrysalis, realizzata con la collaborazione di un videoartista pugliese, Leandro Summo, e interamente girata in green room grazie alla collaborazione di Apulia Film Commission.

Ho sempre amato scrivere musica per immagini – se prima, infatti, il live rappresentava il 100% della mia attività, ora si divide la torta con la scrittura di colonne sonore – e ho voluto realizzare uno spettacolo che unisse la performance live con proiezioni immersive in un unico racconto emozionale. Da Roma si interessarono allo spettacolo fin da subito, quando trasmisi l’anticipazione di Chrysalis. Ma siamo giunti al 14 novembre di quest’anno per riuscire a portarlo in scena, poiché non proprio semplicissimo da allestire, soprattutto in ambiti non proprio abituati a performance del genere.

Il tuo curriculum è fitto di esperienze internazionali. Quello del music export è uno dei grandi temi dell’industria musicale italiana oggi: in base alla tua esperienza, quali sono le strategie che consiglieresti a un artista emergente che vuole lavorare anche all’estero?

Non esiste una ricetta giusta per tutti. Anche perché il mondo sta cambiando, e con una velocità impressionante. Anche io, talvolta, faccio fatica ad abituarmici. Ciò che era meglio fare quindici anni fa, non lo è stato più dieci anni fa, men che meno cinque, e così via.

Di certo, oggi la musica non è solo audio ma soprattutto immagine, video. Curare la propria immagine, la propria comunicazione è divenuto fondamentale, imprescindibile. Anche in ambiti più di nicchia, più underground.

In più direi di cercare di restare se stessi fino allo stremo, in un mondo pieno zeppo di stereotipi. È forse l’unico modo per avere una chance di attirare l’attenzione. Suonare diversi. Sembra un paradosso, ma è così.

Il resto, beh, dipende dalla fame, dal desiderio che ciascuno ha per sé, per la propria vita. Bisogna far tutto il possibile per farsi conoscere, investire, mettersi in gioco.

I mezzi li abbiamo tutti, oggi. Forse anche troppi. Personalmente, in passato, soprattutto quando volevo suonare e farmi conoscere in un nuovo Paese, i primi concerti li facevo con mio personale investimento. Poi, quando la musica piaceva, quando il pubblico gradiva e mi richiamavano, la storia era ben differente. Siamo artigiani. Della musica, ma artigiani.

Kekko Fornarelli e Andrea Fiorito dal vivo
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